Quello di Ganden è uno dei più importanti monasteri del Tibet, nonché una delle tre principali università monastiche dello stesso altopiano asiatico; il suo nome completo in tibetano significa “continente di assoluta felicità vittoriosa”, ma durante la sollevazione del 1959 fu gravemente danneggiato e i suoi monaci costretti all’esilio in seguito all’annessione del Tibet alla Repubblica Popolare Cinese. Proprio a questi fatti si riferisce Franco Battiato con l’espressione “i migranti di Ganden”, citati non a caso nella nuova e inedita canzone che dà il titolo al suo ultimo album Torneremo ancora: una metafora, quella dei monaci tibetani che migrarono dal proprio monastero per costruirne un altro nell’India meridionale, che Battiato adopera per affrontare il tema più universale della migrazione intesa come passaggio dalla vita alla morte, di trasformazione dallo stato materiale a quello spirituale dovuto allo scorrere ineluttabile del tempo e degli anni che passano per tutti; un tema, quello del passaggio da terreno a ultraterreno, non nuovo per il cantautore siciliano, ma che evidentemente lo sta toccando da vicino in questo periodo di rumorosa e prolungata lontananza dalle scene musicali italiane.
Sulla canzone che dà anche il titolo al nuovo – forse ultimo e definitivo? – disco di Franco Battiato si è detto, scritto e letto di tutto: ciò che è certo è che il l’artista di Milo è da diverso tempo lontano dai riflettori per una sospetta e non meglio specificata malattia, il che ha fatto da un lato preoccupare i suoi estimatori, dall’altro ha alimentato gossip e fughe di notizie (con relative smentite) sullo stato effettivo di salute di Battiato da parte di numerosi mass media, sollevando infine il (legittimo) dubbio sull’utilità finale di un prodotto come questo Torneremo ancora. Si tratta di un disco voluto e avallato dallo stesso cantautore, oppure come osservano i più maligni, siamo di fronte alla solita operazione di sciacallaggio da parte delle persone più vicine all’artista siculo, che ben conoscendo lo stato di salute di quest’ultimo, cercano di approfittarne finché possono? Il dubbio che fa restare in bilico tra opera d’arte e speculazione commerciale è lecito e spesso a pensar male si fa peccato, ma ci si azzecca; ad ogni modo, dati oggettivi alla mano, Torneremo ancora è un disco senza dubbio affascinante, che per tutti questi motivi contrapposti fra loro riesce ad emozionare eccome l’ascoltatore.
Si tratta di un album frutto delle registrazioni avvenute durante le prove del tour del 2017 tenuto da Franco Battiato insieme alla Royal Philharmonic Cocnert Orchestra che comprende 14 versioni sinfoniche di altrettanti classici intramontabili come La cura, Povera patria, L’animale, I treni di Tozeur, E ti vengo a cercare, Te lo leggo negli occhi e l’immancabile L’era del cinghiale bianco incisa dal vivo, a cui si aggiunge l’inedito Torneremo ancora: quella che come tanti temono sarà molto probabilmente l’ultima pagina della carriera discografica del maestro siciliano è un canto riflessivo e profetico sul tema della migrazione delle anime più che dei corpi, un brano etereo e spirituale in tipico stile Battiato, il quale, con voce apparentemente flebile e affaticata, sembra quasi congedarsi per l’ultima volta dai suoi ascoltatori, quando canta “La vita non finisce, è come il sonno, la nascita è come il risveglio: finché non saremo liberi torneremo ancora e ancora…”.
Ma Torneremo ancora non è l’unico brano che affronta il tema della fine e dell’inizio, del senso di smarrimento per trovarci in una condizione dalla quale vorremmo liberarci e dell’essere comunque sempre e costantemente esseri umani in divenire: in questo senso, oltre che per evidenti esigenze di orchestrazione, non è casuale la scelta di aprire il concerto con l’accoppiata Come un cammello in una grondaia (“E ancora sto aspettando un’ottima occasione per acquistare un paio d’ali e abbandonare il pianeta…”) e Le sacre sinfonie del tempo (“Le sento più vicine le sacre sinfonie del tempo con una idea, che siamo esseri immortali caduti nelle tenebre, destinati a errare nei secoli dei secoli fino a completa guarigione…”), per passare poi alle sempre attuali e sublimi Povera Patria (“Se avremo ancora un po’ da vivere, la primavera intanto tarda ad arrivare…”), L’animale (“Vivere non è difficile potendo poi rinascere…”), E ti vengo a cercare (“Emanciparmi dall’incubo delle passioni, cercare l’Uno al di sopra del Bene e del Male, essere un’immagine divina di questa realtà…”), La cura (“Supererò le correnti gravitazionali, lo spazio e la luce per non farti invecchiare…”), Prospettiva Nevskij (“E il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire…”) e infine concludere la scaletta con i versi de Le nostre anime (“Le nostre anime cercano altri corpi in altri mondi dove non c’è dolore, ma solamente pace e amore…”), come a riprendere il messaggio anticipato con l’inedito Torneremo ancora (“Nulla se crea, tutto si trasforma… cittadini del mondo cercano una terra senza confine… Lo sai che il sogno è realtà, un mondo inviolato ci aspetta da sempre… Molte sono le vie ma una sola quella che conduce alla verità, finché non saremo liberi torneremo ancora…”).
Per quanto si tratti di un album solo parzialmente dal vivo (a parte L’era del cinghiale bianco, non ci sono applausi né altri interventi del pubblico), è evidente il fil rouge che lega le 15 tracce del disco, c’è un discorso di fondo – quello del già citato passaggio dal mondo terreno a un’altra dimensione – che purtroppo fa pensare che Torneremo ancora possa essere davvero a tutti gli effetti il canto del cigno per Franco Battiato. Naturalmente speriamo tutti che non sia un addio definitivo, ma il disco – e soprattutto le voci che si sono rincorse al momento della sua pubblicazione – sembrerebbero portare verso questa triste direzione. Tuttavia, siccome lo stesso Battiato in Lode all’inviolato canta che “le nuvole non possono annientare il sole” e nell’inedito dice con fare quasi profetico che “finché non saremo liberi torneremo ancora”, allora possiamo ancora permetterci il lusso di sperare – o quantomeno di illuderci – che ci saranno ancora tante altre canzoni e altrettanti dischi per uno dei cantatori più interessanti, sperimentali, originali, acuti e profondi che l’Italia contemporanea abbia mai conosciuto.
Matteo Manente