Più folk che rock, più Gang che Springsteen, più Italia che America, più violino e mandolino che chitarre elettriche o sax: sono questi i confini musicali entro cui si muove Storie della fine di un’estate, il secondo album del cantautore milanese Carlo Ozzella, pubblicato nel gennaio 2016.
Dopo l’ottimo esordio messo a segno nel 2013 con Il lato sbagliato della strada, che si muoveva nel solco del classic rock americano, Ozzella spariglia le carte e sforna un disco decisamente diverso dal precedente, sia nei suoni che nei contenuti espressi nelle dodici tracce che lo compongono. Storie della fine di un’estate è un album che si discosta da quanto inciso tre anni fa, senza tuttavia rinnegare nulla di quanto fatto in tanti anni di concerti, provando piuttosto a rinnovare il sound tramite l’inserimento di violini, mandolini e altri strumenti dichiaratamente folk che rendono il tutto più leggero, arioso, solare. Già dalla copertina sgargiante si intuisce il cambio di rotta intrapreso da Ozzella: laddove il disco d’esordio vedeva un seppur bellissimo artwork tutto in bianco e nero, questo nuovo lavoro presenta invece un maggiolone viola alle cui spalle si staglia un cielo nitido e azzurro. Ma le differenze non sono ovviamente solo grafiche: le nuove canzoni – scritte e cantate tutte in italiano – sono più introspettive e meno legate alle tematiche sociali che caratterizzavano il disco d’esordio. I brani di Storie della fine di un’estate vanno a toccare numerosi aspetti della vita quotidiana e privata dell’autore, raccontando episodi di vita realmente accaduti nei quali ciascuno può facilmente identificarsi: dodici brani dichiaratamente figli della miglior tradizione cantautorale italiana, arricchiti da arrangiamenti folk-rock che conferiscono al disco un’omogeneità che premia e valorizza i testi e le musiche delle singole canzoni.
A dare il via alle danze ci pensa il singolo Santi perdenti ed eroi, un brano ritmato e pieno di positività nel quale ciascuno di noi è invitato a prendersi le proprie responsabilità, a fare delle scelte consapevole degli eventuali prezzi da pagare: “Solo chi rischia non si pentirà mai, questa è la vita per noi / dove c’è ancora forza ci troverai, santi perdenti ed eroi…”. Sempre in bilico tra rock e canzone d’autore è pure la successiva Niente da perdere, che parla di rinascite personali senza più condizionamenti imposti dall’alto: “Per tutta la vita costretto a fingere, ingenuo e complice / illuso di agire senza poi scegliere, senza decidere / un nuovo orizzonte ancora per rinascere, libero e semplice / lasciandomi dietro i trucchi e le mie maschere e niente da perdere…”. Di matrice più folk sono invece le ballate Alla fine del giorno e Ti bacio per tutta la vita: la prima è una romantica ed intima dichiarazione d’amore per la persona amata (“ma sono qui per dirti che alla fine del giorno / il tuo profilo sulla porta è ciò che mi salverà, quando farò ritorno a casa…”), mentre la seconda è una dedica piena di passione e poesia per la figlia appena nata, impreziosita da violino, mandolino e altri strumenti acustici che le conferiscono ancor più pathos e dolcezza, oltre a un verso che da solo vale tutto il pezzo: “Cos’altro puoi dare ad un uomo che parte se non un motivo per fare ritorno?”. L’assenza e la lontananza da una persona che per varie ragioni è stata importante sono invece alla base de La strada che conduce a te, un’altra ottima ballad sospesa tra malinconia, ricordi e rimpianti, quelli che puntualmente vengono a bussare alla porta quando cala l’oscurità e i pensieri hanno libero sfogo: “Scenderà la notte e farà male pensare che non sei con me / ma devo ripercorrere i miei passi sulla strada che conduce a te / devo perdermi, riconoscermi via da qui…”.
Dopo tre ballate si torna al ritmo travolgente di Forti e liberi, canzone solare e frizzante che ricorda tanto l’età dell’innocenza, quella di quei vent’anni nei quali – per dirla alla Guccini – “si è stupidi davvero, quante balle si ha in testa a quell’età”; Ozzella alza i volumi e racconta di quando si viaggiava spensierati in compagnia di tanti amici per le strade dell’Europa, inseguendo solamente sogni e canzoni nello stereo della macchina: “Liberi, ci sentivamo forti e liberi… non avevamo conosciuto il male, nessun compagno perso sulla via / un poco ingenui ma è così che va / poi trovi un senso a quel che capita…”. Ancora violino e chitarre acustiche in primo piano nella trascinante In una notte come questa, un brano che sa di mare, sole, spiaggia e canzoni, uno dei vertici dell’album che non a caso dà pure il titolo al disco: “C’è chi sogna e giura amore eterno e chi non perde tempo / storie della fine di un’estate, svanite poi in un lampo / forse non è ancora tardi per un’ultima canzone prima che dal mare spunti il sole / prima di scoprire cosa resta di una notte come questa…”. Un vuoto da riempire è più acustica, asciutta, con banjo e steel guitar a condurre le danze: “Siamo come attori al centro della scena / a recitare una commedia umana / troveremo mai il coraggio di cambiare / e restiamo freddi come un fuoco spento / per la paura di morire dentro / dov’è l’anima: c’è un vuoto da riempire…”.
Il titolo di brano più rock del disco spetta invece a Niente e così sia, senza dubbio tra gli episodi migliori dell’album e unico brano con echi di tematiche sociali al suo interno, grazie a un testo carico di indignazione verso alcuni comportamenti umani e altrettante storture del mondo, dai migranti senza nome lungo la ferrovia alle vittime di tutto il mondo che chiedono invano pietà: “Mentre gettavo a piene mani il mio disprezzo sul mondo e sullo sporco delle vostre bugie / ho abbandonato la speranza e l’innocenza di un tempo in una notte di tempeste e follie…”. Un brano rabbioso, urlato a piena voce nell’attesa di un cambiamento che però non arriva, di una redenzione quasi evangelica che porti finalmente i primi a diventare ultimi e gli ultimi primi, anche se l’immagine di un Cristo sconsolato che abbandona il trono e la sua corona di spine andandosene via lontano lascia ben pochi residui di speranza: “Ho visto un trono consumato e una corona di spine abbandonati in una periferia / mentre la polvere ed il buio nascondevano i segni e un uomo a piedi percorreva la via…”. Di fronte a “una terra consumata dal vento” in cui “ogni destino è solo causalità”, né fede né ragione riescono ad offrire una spiegazione o una risposta credibile: “Non c’è fede né ragione, solo un altro trucco, un’illusione / un inferno dentro che ti porta via / mani tese come un dono / occhi dentro agli occhi a chiedere perdono / sotto il cielo niente, niente e così sia…”.
Violini e chitarre ancora in primo piano per l’unico brano non a firma di Ozzella: Quando il cielo è fragile è infatti una cover di Tears are falling down, brano scritto da Lorenzo Semprini per Dirty roads, il primo album dei suoi Miami & The Groovers e tradotto in italiano qualche anno fa da Daniele Tenca: “Quando il cielo è fragile / non ti puoi nascondere / puoi soltanto insistere / quando il cielo è fragile…”. Calano i decibel ed ecco l’ultima ballata, quella che potrebbe siglare la fine perfetta di un disco altrettanto splendido: Fino all’ultimo respiro è un invito a percorrere la propria strada fino in fondo, senza perdersi nemmeno un frammento del cammino: “Fino a che non è finita percorro il mio sentiero / e cerco luce e vita, fino all’ultimo respiro…”. Un brano lento ed emozionante, arrangiato in modo sublime grazie a un intreccio di pianoforte, chitarra acustica e un assolo di sax dell’ottimo Claudio Lauria che si muove tanto dalle parti di Drive all night… ma è l’unica concessione più o meno palese alla musica di Bruce Springsteen, l’unico “debito” nei confronti del rocker del New Jersey che tanto ha fatto nella formazione musicale di Carlo Ozzella.
Si accennava a Fino all’ultimo respiro come possibile e “classica” conclusione acustica del disco: invece, a dispetto dei pronostici, Storie della fine di un’estate si chiude con uno dei brani più r&r dell’intero lavoro: Viola, emblema di tutti i peccati e di tutte le tentazioni a cui un uomo non può resistere: “Ognuno sceglie come vivere, le tentazioni a cui resistere / quali peccati vuol commettere, il mio si chiama Viola / Ognuno sceglie come vivere, le tentazioni a cui resistere / quali peccati vuol commettere, quando si gioca si può perdere…”. All’ascoltatore stabilire quali possano essere queste fantasie, ciascuno avrà la sua Viola, ma il ritmo è trascinante, tirato ed energico: un modo vitale e divertente per chiudere il disco con un sorriso e la voglia di riascoltarlo tutto da capo!
Se è vero, come si dice negli ambienti musicali, che per ogni artista il secondo disco è molto più difficile del primo e che è questo il suo vero banco di prova, non possiamo che confermare le buone impressioni già avute in merito a Carlo Ozzella e alla sua musica: il nuovo lavoro segna un passo avanti nella sua personale ricerca musicale di cantautore, un disco che si discosta dal precedente senza però snaturarne lo stile, un disco in cui le atmosfere si fanno più rilassate, meno elettriche ma mai smaccatamente pop; in poche parole, Storie della fine di un’estate è la dimostrazione che in Italia c’è ancora chi fa e sa fare dell’ottima canzone d’autore, scrivendo testi importanti e arrangiamenti che strizzano contemporaneamente un occhio al rock e l’altro al folk: per quello che contano queste poche righe, possiamo fidarci ancora una volta di Carlo Ozzella!
Matteo Manente