LECCO – Un pezzo sulle difficoltà e sulla frustrazione degli ultimi mesi di pandemia, scritto dal cantautore lecchese Arturo Fracassa. Stiamo parlando di Caso Clinico, l’ultimo singolo del musicista noto in città anche per il suo passato da cestista in alcune delle principali squadre di basket della nostra provincia. Una carriera, quella di cantautore, iniziata nel 2016 con il disco Baciami Arturo e poi proseguita nel 2018 con La vita dentro i margini e, nel 2019, con il singolo Sono nato qui, omaggio alla sua città natale. Infine, nell’ultimo anno, l’uscita di due singoli fortemente influenzati dalla situazione che sta coinvolgendo tutto il mondo: La vita inizia dove finisce il divano e l’ultimissimo Caso Clinico. Pezzi diversi e che raccontano fasi differenti del nostro Paese nell’affrontare la pandemia, dalla speranza piena di paure ma quasi romantica che caratterizzava il primo lockdown alla rabbia e frustrazione della seconda e terza ondata.
Arturo, per iniziare parliamo del tuo nuovo singolo: Caso Clinico, prodotto da Fulvio Arnoldi (musicista della band di Francesco Renga) e di cui hai scritto testo e musica. Un pezzo che si può trovare sulle principali piattaforme e di cui il video, realizzato da Antonio Losa, è disponibile su Youtube…
Si tratta di uno sfogo e allo stesso tempo di un bilancio dopo un anno che siamo in questa situazione. La pandemia ci ha fermato e questo fermarsi ha dato modo a tutti di coltivare altre passioni e allo stesso tempo di riflettere su determinate cose. La mia è una valutazione personale su quello che è stato vivere una pandemia soprattutto per quanto riguarda gli effetti sociali: la diffidenza nei rapporti, la paura dell’incontro con l’altro, il cambiare strada quando ci si incrocia, sempre per evitare il contagio.
Un pezzo da cui emerge uno stato d’animo diverso rispetto agli ultimi lavori, potremmo dire quasi arrabbiato…
Certo, e questo per il fatto di essere spettatori di scelte non nostre, spettatori di quello che viene detto in tv, sui giornali e sui social network. Una rabbia dovuta anche all’incertezza provocata dal leggere notizie che un giorno dicono una cosa e il giorno dopo cambiano, informazioni contrastanti, pareri contraddittori che nell’arco di un anno ci hanno e mi hanno stancato. Si prova a rispettare le regole, ma senza quasi capirci niente. Per questo uso la metafora del soldatino che ubbidisce e che si muove come una marionetta in una situazione assolutamente poco chiara. L’intento della canzone non è quello di schierarmi politicamente, ma c’è una presa di coscienza del fastidio provato nell’avere poca voce in capitolo e nel non comprendere fino in fondo le scelte. È più uno sfogo, la descrizione di uno stato d’animo o, meglio, di più stati d’animo, che vanno dall’amareggiato al triste, dal deluso al frustrato.
In questo anno di pandemia hai scritto due pezzi completamente diversi l’uno dall’altro: l’ultimo – di cui abbiamo appena parlato – più arrabbiato, mentre il precedente “La vita inizia dove finisce il divano” aveva atmosfere decisamente differenti…
Sì, La vita inizia dove finisce il divano l’ho scritta in una situazione completamente diversa, caratterizzata dal primo lockdown. Un periodo vissuto sicuramente con paura, ma anche non in maniera completamente negativa, perché mi ha dato la possibilità di scrivere, leggere, suonare, in sintesi di avere molto più tempo a disposizione. Il divano rappresentava, quindi, una zona di comfort, in cui mi trovavo bene. Ne è nata una canzone d’amore, sempre nella convinzione che quella situazione non si sarebbe potuta protrarre a lungo.
Diverso anche l’arrangiamento dei due pezzi…
Sì, il nuovo singolo ha un arrangiamento abbastanza carico. Lo volevo così proprio per sottolineare il testo, per rendere tutto più incisivo…
Veniamo al video di “Caso Clinico”, ancora una volta firmato dal lecchese Antonio Losa. Dove è stato girato?
In tre luoghi diversi. Innanzitutto a Consonno. Una parte, invece, è girata nell’ex ospedale psichiatrico di Mombello, praticamente in disfacimento, luogo surreale e affascinante allo stesso tempo. Infine, altra location, un sottopassaggio nei pressi del lungolago di Lecco, dove un po’ di anni fa è stato realizzato un bellissimo murales che parla di integrazione. Abbiamo inserito quest’ultimo luogo per far emergere il contrasto tra il degrado e l’arte intesa come luogo di rinascita. Un contrasto reso ancora più evidente dall’accostamento con gli altri due luoghi scelti, emblema dell’abbandono.
I tuoi pezzi si rifanno alla tradizione pop rock italiana. Ci racconti un po’ le tue influenze musicali?
Certamente sono stato influenzato in maniera molto forte dal pop rock italiano e, in particolare, da Luciano Ligabue. Posso dire di aver iniziato a strimpellare la chitarra proprio con le sue canzoni e questo lo si nota soprattutto nel mio primo disco. Successivamente sono passato ad ascoltare molto di più altri cantautori italiani come Samuele Bersani, Niccolò Fabi e Daniele Silvestri. Forse, con il passare del tempo, a interessarmi maggiormente è il contenuto, questo a discapito di quell’energia rock che ricercavo quando ero più giovane.
Dopo due dischi e tre singoli pubblicati negli ultimi anni hai in programma un nuovo album?
Sì, vorrei farlo, mi piacerebbe. Ho il materiale e quindi penso di chiudere la mia trilogia, ma sicuramente non nel brevissimo periodo. Prima spero di poter ricominciare a suonare dal vivo…