Teatro nel teatro e riflessioni sul fare arte.
Ecco “Il vizio dell’arte” secondo il Teatro dell’Elfo. La recensione

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LECCO – Una riflessione su ciò che significa fare arte, sui diversi modi di intendere il rapporto con il proprio pubblico, con ciò che quest’ultimo può o meno accettare, e insieme una finestra aperta sul teatro nel suo farsi, tra commenti, critiche, piccole schizofrenie di attori che continuamente vestono e svestono i panni del rispettivi personaggi, dialogano con un pubblico che pubblico non è, si aggirano in uno spazio che comprende l’intera platea. Per più di due ore lo scorso 9 di gennaio la compagnia del Teatro dell’Elfo ha portato sul palco del Teatro della Società di Lecco uno spettacolo, Il vizio dell’arte di Alan Bennett, che certamente omaggia l’arte – sia essa teatro, poesia o musica – ma che ne getta via, nello stesso tempo, la maschera, svelando retroscena e mettendo sul tavolo questioni antichissime e attuali su cosa voglia dire essere artista.

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@ Laila Pozzo

La scena è aperta: nessun sipario, niente quinte o fondale, perché ciò che sta avvenendo è una semplice, almeno a parole, prova generale di uno spettacolo: Il giorno di Calibano. Ferdinando Bruni, coautore insieme a Francesco Frongia, sul palco è Fritz, attore che con un certo livello di insofferenza e tra continue critiche al testo teatrale si fa Wystan Hugh Auden. Un riuscito teatro nel teatro, in cui il grande poeta è mostrato in una quotidianità fatta di mobilio e abbigliamento logoro: il declino dell’artista si riflette in ciò che lo circonda, nella scarsa cura del proprio aspetto, e le grandi parole di un tempo si fanno per lui vuote, mai adeguate.

A monopolizzare i suoi discorsi è, ora, il sesso, un’omosessualità mai pubblicamente dichiarata ma da tutti conosciuta. Battute a sfondo sessuale, incontri con marchette, fino alla condivisibile domanda di Fritz, rivolta all’Autore del testo e ai colleghi: «Dove sta la poesia?». Bravissimo qui Bruni, che continuamente si fa Fritz e poi Auden, riesce nell’indossare l’una e l’altra maschera, sa definire caratterialmente l’attore brontolone e irritabile e il poeta che qui è sprezzante e sboccato. Intorno a Fritz, poi, tutti i vizi, le insofferenze, le questioni latenti che caratterizzano una qualsivoglia compagnia teatrale: dall’autore insoddisfatto per le scelte registiche all’attore che interpreta il biografo di Auden e inscena un improbabile siparietto per accaparrarsi un ruolo più centrale, dal suggeritore che si prende la libertà di correggere l’attore all’assistente di regia che cerca con determinazione di tenere insieme i fili della pièce (degna di nota, qui, l’interpretazione di Ida Marinelli).

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@ Laila Pozzo

Ma lo spettacolo, pur con qualche passaggio non del tutto convincente, è soprattutto un omaggio al fare arte, un gustoso dibattito tra due artisti britannici ora nella fase finale della rispettiva carriera. La pièce che gli attori stanno mettendo in scena si fa sempre più interessante: a fare visita ad Auden è il curatissimo compositore Benjamin Britten, ex amante del poeta che qui ha volto e voce, come si poteva immaginare, di Elio De Capitani. Un incontro immaginario, quindi, tra due punti di riferimento per la cultura britannica, chiamati sulla scena per un bilancio personale e professionale. Due modelli a confronto, verrebbe da dire: a un Auden malconcio ma pur sempre sferzante, pervaso dalla convinzione che arte è soprattutto espressione di sé, incurante nei confronti del parere del pubblico, si contrappone, qui, il successo di un uomo, Britten, che è attento all’immagine, alla forma, alla morale.

Uno scontro vivace che trova in La Morte a Venezia un concreto campo da gioco. Nessun giro di parole per chi le parole le conosce bene: il testo di Mann, che Britten sta tramutando in opera, è per Auden una «lettura obbligata per froci», perché «storia di un vecchio che vuole farsi un ragazzino». Poco importa del parere del pubblico, dell’indignazione che potrebbe scaturirne: l’artista deve dire le cose come sono, perché «l’arte non è il tennis. Mica devi vincere». Difficile accogliere un simile punto di vista per il compositore: elegante, a tratti altezzoso, fiero delle sue opere e del successo, per Britten il vecchio Gustav von Aschenbach è innocente, vittima della bellezza del giovane Tadzio, o almeno così deve sembrare al pubblico.

Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani

Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani

Una debolezza, forse, ma difficile da vincere. Perché la chiave di lettura la fornisce, alla fine, l’assistente di regia, che al termine della prova e rimasta sul palco accanto all’Autore ci rivela una scomoda verità: «gli attori – dice – sono come i soldati. I soldati temono il nemico; gli attori temono il pubblico. Paura dell’insuccesso. Paura di dimenticare. Paura dell’Arte».

Valentina Sala

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L'autore di questo articolo

Valentina Sala

È la “flâneuse” che non smette mai di flaneggiare (?): in continuo vagabondaggio tra luoghi (certo) e soprattutto nuovi progetti da realizzare, dirige il giornale in modo non proprio autoritario (!). Ideatrice e cofondatrice de Il Flâneur, non si accontenta di un solo lavoro. Giornalista, ufficio stampa culturale, insegnante di Comunicazione, indossa l’uno o l’altro cappello a seconda delle situazioni. Laureata in Editoria con il massimo dei voti, ama approfondire il rapporto tra città e letterati (sua, infatti, la tesi sulla Parigi di Émile Zola e la Vienna di Joseph Roth), i romanzi che raccontano un’epoca, i film di François Truffaut, le grandi città e, naturalmente, il viaggio flaneggiante, specie se a zonzo per le strade d’Europa. Per contattarla: valentina.sala@ilflaneur.com