MISSAGLIA – Il lavoro che ricatta. Il lavoro che proprio non si trova, o che c’era e ora non più. Il lavoro interinale, da conquistare o che divide, completamente svuotato da quella che per un secolo è stata la sua anima: la coscienza di classe. Il mondo del lavoro di oggi, la contemporaneità, le difficoltà di dialogo tra generazioni scorrono sul palco, divengono occasione per raccontare storie diverse, tutte unite da quel fil rouge che è la società che viviamo. Così, con uno spettacolo che di storia in storia dà forma a una vera e disarmante Piccola società disoccupata, ACTI Teatri Indipendenti veste di risate una realtà amara, punta in faccia al pubblico uno specchio in cui mai ci si vorrebbe scrutare, narra di un lavoro sfuggevole e sadico e di una società che, via via, si sgretola, perde i punti di riferimento, mette gli uni contro gli altri.
In scena lo scorso mercoledì 4 settembre all’interno del Monastero della Misericordia di Missaglia e appuntamento del festival L’ultima luna d’estate, Piccola società disoccupata – proprio questo il titolo dello spettacolo – è un susseguirsi di situazioni diverse, tutte interpretate dai bravi Ture Magro, Barbara Mazzi, Beppe Rosso, quest’ultimo anche alla regia. Un testo che parte dalle parole del drammaturgo francese Rémi De Vos, privo di eccessi retorici ma dagli arguti paradossi, qui abilmente tradotto da Luca Scarlini.
In una scena semplice, fatta di sedie di volta in volta spostate dagli attori, prendono forma una decina di situazioni diverse. C’è chi vorrebbe andare il vacanza con la moglie ma teme di salire in cima alla lista di chi rischia il posto; chi sostiene un improbabile colloquio di lavoro; chi, non più giovanissimo, prova a ridare sostanza a espressioni ormai desuete, da lotta di classe a proletariato. C’è, ancora, chi si eccita – e non è un modo di dire – al solo pensiero di un possibile lavoro, chi ha un contratto precario, chi tradisce sul lavoro. È una pellicola che scorre: fotogramma dopo fotogramma, ecco il film della vita di molti, il racconto di una società che non sa più essere tale, che è guerra tra gli ultimi, che esclude e in cui ogni escluso – come afferma un vecchio nostalgico di Marx – è una classe sociale a sé, in cui tutti si escludono a vicenda e in cui non si sa niente di niente. Lì, solo sul palco, Beppe Rosso dà volto a un uomo dalla dialettica incerta, legato ai valori di un tempo ma incapace, oggi, di argomentarli, di renderli comprensibili, di tradurli in contemporaneità.
Una guerra tra gli ultimi, dicevamo, in cui i legami si rompono, perché quando ci si gioca la pelle, amici non ce ne sono più e ogni mezzo diviene lecito per salvarsi. In cui, per sopravvivere, è meglio schierarsi sempre con la maggioranza, restare buoni, altrimenti si rischia di finire per strada, come quei barboni utilizzati a scopo didattico, per mettere paura. In cui a scongiurare l’esaurimento ci pensano i farmaci psicotropi, veri regolatori sociali. In cui, e forse è il peggio, si perde la capacità di ascolto e di dialogo: tra generazioni diverse, certo, con i giovani sempre meno disposti ad ascoltare i racconti di un mondo per loro passato, che si tratti di un film con Gian Maria Volonté o dei ricordi di una festa di partito con Enrico Berlinguer, ma anche tra coetanei, in gara su corsie differenti verso il medesimo traguardo.
Uno spettacolo che, pur dilungandosi in alcune sue parti, diverte per le contraddizioni spinte all’estremo, per il crescendo di isteria che scena dopo scena prende i suoi personaggi, per la bravura di chi li interpreta; e che lascia infine un soffio di speranza a chi ha perso tutto: «quando pensi di non poter più andare oltre – così Rosso nella scena finale – ti accorgi che c’è ancora un oltre».
Valentina Sala
Foto di Maurizio Anderlini