LECCO – «Se non “creo”, non esisto. Sono una persona difettosa». Possesso, vera e propria ossessione, il desiderio vorace di maternità è il tema attorno a cui ruota Le difettose, pièce teatrale ispirata all’omonimo libro di Eleonora Mazzoni e voluta dall’attrice Emanuela Grimalda. Per la regia di Serena Sinigaglia, lo spettacolo è andato in scena sul palco del Cineteatro Palladium mercoledì 21 marzo, nella rassegna di prosa organizzata dal Comune di Lecco.
Dall’universo molteplice e confuso delle voci femminili, su una scena asettica che è sala d’aspetto, casa, stanza di un motel, sala operatoria, studio medico, e, ancora, università, posto di lavoro, chiesa, emerge Carla Petri. Protagonista, Carla è chiamata in scena da Rosa, infermiera cinquantenne siciliana, primo personaggio interpretato dalla Grimalda, che in questo spettacolo letteralmente si fa in sette: «Sono in questo reparto da vent’anni e ormai le conosco – così Rosa al pubblico – loro non fanno il test di gravidanza, loro “sticcano”; non sono in gravidanza, “fanno la cova». A suon di “ovette”, “spermini”, “embrioncini”, conosciamo le donne che, come Carla, cercano un figlio che non arriva. Trentanove anni, ricercatrice universitaria in lettere antiche, madre mancata, Carla è al suo quinto tentativo di PMA, “Procreazione Medicalmente Assistita”: non si arrende a sentirsi manchevole, difettosa, “contro natura”.
Sopra tutti, un desiderio: diventare madre. E il nemico più grande è il tempo. E allora bisogna correre, sottoporsi a trattamenti clinici, cure, attese snervanti, preparazioni lunghe, transfer; bisogna fare tutto il possibile prima che sia definitivamente troppo tardi. «Io li detesto i ritardi – ripete Carla – a parte uno», l’unico che non capita mai.
Scaturito come sano e naturale da una coppia innamorata, il desiderio di maternità diventa ossessione, lotta di conquista, possesso. Una battaglia in cui Carla è disposta a perdere ciò che ha di più caro, il marito, le amiche, se stessa, pur di riempire l’assenza: «È così presente l’assenza di un figlio».
Polifonica, sfaccettata, dalle molteplici angolature, vera protagonista in scena è la maternità, agognata da Carla, cercata supportata sopportata e in-sopportata da Marco, suo marito («Er fijo nun ce sta! Lei vuole lui, non me, non noi.»); maternità ottenuta da Katia, l’amica lesbica di Carla e analizzata statisticamente dalla dottoressa Tini; maternità subita da Rosa, l’infermiera, sottovalutata dalla mamma di Carla, distratta da tutta la vita («Ne ho mille da fare», ripete col suo accento romagnolo).
In un crescendo di tensione, attutita e smorzata dai frequenti cambi di voce e d’accento dell’attrice triestina che si cala con scioltezza nei vari ruoli, l’acme si concentra nella domanda che l’attrice rivolge alla platea come un’invocazione: «Al mondo – Carla è rassegnata dopo l’ennesimo tentativo fallito – non ci sarà mai un figlio mio. Perché?».
Da qui, lo scioglimento. Al fondo di un percorso tortuoso durato anni e costato fatiche e perdite, Carla Petri si ferma. Torna ai suoi libri di letteratura antica. Seneca, lettera a suo figlio: “Ti auguro il possesso di te”. Come alla fine di un percorso di guarigione, in queste parole che riecheggiano da lontano, cercando un figlio, Carla ritrova se stessa.
Claudia Farina