LECCO – Un ventennio di torpore, di individualismo, di estenuante ricerca di punti di riferimento politici e culturali, di mancanza di senso di appartenenza. Un ventennio in cui un’intera generazione fatica a mettere a frutto l’eredità dei due decenni precedenti, fa i conti con genitori e miti forse ingombranti, sostituisce al noi, alla condivisione, all’impegno politico e civile un io imperante, per poi accorgersi, qualche anno dopo, che questo io non basta e che per volare lontano è necessario essere parte di uno stormo.
L’esperienza di Andrea Scanzi, giornalista che lo scorso martedì 26 gennaio ha portato sul palco del Teatro della Società di Lecco il suo Il sogno di un’Italia, scritto e interpretato insieme al musicista e attore Giulio Casale, si fa esperienza collettiva: uno spettacolo fatto di parole e musica, di riferimenti a un ventennio, quello che dall’84 conduce al 2004, in cui l’Italia si è fermata, si è come addormentata, cullata da melodie leggere in gara a San Remo e intorpidita da una televisione sempre più ingombrante.
E le parole di Scanzi sono un po’ quelle di tutti noi, di chi oggi, all’incirca quarantenne, si guarda indietro, ripensa a quei due decenni in cui l’Italia, proprio come recita il sottotitolo dello spettacolo, non è mai andata a tempo. Le canzoni, gli attori, gli eventi storici scorrono come fotogrammi di una pellicola che è la nostra memoria. I paninari, le indimenticabili battute di Non ci resta che piangere, le parole di Viva l’Italia, la strage di via D’Amelio, Tangentopoli: si sorride, ci si arrabbia, ci si interroga. Perché un’intera generazione, questa la sensazione al termine dello spettacolo, sembra aver fallito e, in un certo senso, tradito i suoi miti, uomini che hanno scelto di andare fino in fondo, anche a costo della loro vita. Il ricordo di Berlinguer a Padova, di Troisi sul set de Il Postino, di Borsellino all’indomani di Capaci: dinanzi a un bivio, così ne parla Scanzi, tutti hanno scelto di perseverare, di portare a termine il loro lavoro. Miti per molti, come dicevamo, parte di quel puzzle forse incompiuto ma personale, e per questo legittimo, costruito sul palco in poco meno di due ore di spettacolo.
Casale è un buon controcanto ai ricordi incalzanti del giornalista: canta – appunto – e suona Gaber, Fossati, De Gregori, Vasco e commuove con la versione firmata da Jeff Buckley dell’Hallelujah di Cohen. Perché la musica parla del suo tempo e svela un desiderio che sembra riaffiorare: quello di impegno, di militanza, se non grazie alla politica almeno attraverso l’arte. E così i flash sul ventennio continuano, e un passo alla volta conducono sino al nuovo millennio e a quello che per il giornalista è l’unico momento in cui c’è chi sceglie di parlare con determinazione e di uscire dal torpore: il G8 di Genova. L’unico, perché con molta, forse troppa, rapidità Scanzi liquida manifestazioni e girotondi, attivismo e scioperi sindacali, decretando una totale impasse politica e civile degli anni di Berlusconi.
«Il popolo italiano non merita niente», parole come lame perché pronunciate da un insospettabile Ferruccio Parri e a cui fanno eco quelle di Monicelli, che pochi mesi prima della sua scomparsa afferma: «gli italiani sono fatti così: vogliono che uno pensi per loro. Se va bene, va bene. Se va male, poi lo impiccano a testa sotto». E lo spettacolo parrebbe condurre qui, a un’accettazione passiva, rassegnata, di una condizione da cui l’Italia e gli italiani difficilmente potranno uscire. E invece, proprio sul finire, ecco la speranza che torna, ecco il sogno di un’Italia. Scanzi e Casale chiedono aiuto a Fossati, le cui parole risuonano nel teatro: «C’è un giorno che ci siamo perduti / come smarrire un anello in un prato / e c’era tutto un programma futuro / che non abbiamo avverato. / È tempo che sfugge, niente paura / che prima o poi ci riprende / perché c’è tempo, c’è tempo c’è tempo, c’è tempo / per questo mare infinito di gente».
Valentina Sala