SIRTORI – C’è grande attesa per lo spettacolo di Eugenio Allegri che porta in scena Novecento, il monologo scritto per lui da Alessandro Baricco nel 1994. La pioggia battente, che ha rimescolato le carte in tavola creando disagi all’organizzazione tecnica della serata, contribuisce a creare una coesione, fisica ed emotiva, tra le persone che sabato 9 settembre si radunano fuori dal palazzetto di via Ceregallo di Sirtori e si dispongono compostamente in una fila attenta e quieta come una processione. Fuori, buio, acqua scrosciante, luci che feriscono il cielo, tagliandolo per un istante.
Nel centro dell’area del campo, il palcoscenico: un telo bianco appeso a una struttura rettangolare cade e fa da fondale; sulla sinistra, appeso a una cordicella, un piccolo pianoforte galleggia sospeso a mezz’aria. Alcuni fari laterali a terra attendono di illuminare la scena. Lentamente, gli spalti del palazzetto si riempiono di prossimi spettatori e il chiacchiericcio diventa sottofondo dell’attesa.
Dopo i saluti del vicesindaco di Sirtori Paolo Negri e del direttore artistico del festival Luca Radaelli, ecco lo spettacolo che tutti stanno aspettando: Novecento, giunto al suo ventitreesimo anno di vita, interpretato dal suo legittimo interprete, Eugenio Allegri.
Le luci si spengono e dalla destra del palco arriva, camminando a testa bassa, con un cappello che gli nasconde gli occhi, un cappotto che gli copre le spalle e una valigia rattoppata in mano, l’attore, già calato nell’io narrante della storia, una storia «che vale la pena di essere raccontata», accompagnato dalle note di Summertime, aria jazz del compositore George Gershwin.
È il narratore, colui che ha una storia da raccontare, la storia di Novecento, «il più grande pianista che abbia mai suonato sull’Oceano». Il personaggio dell’io narrante è un trombettista, che nel gennaio 1927 viene preso per suonare a bordo del piroscafo Virginian. Molleggiato, saltellante, il cappello calcato sulla fronte, la cravatta slacciata attorno al collo, un paio di bretelle in vista sotto il cappotto sbottonato, questo personaggio è subito caratterizzato da un accento “americaneggiante” e da un andamento straniante.
Il regista Gabriele Vacis, in un’intervista del 2012, in occasione della duecentesima messa in scena di Novecento, definisce questo io narrante «grottesco», un personaggio da commedia dell’arte, più maschera che personaggio, pressoché privo di qualsiasi tragedia interna che possa renderlo sostanziale.
L’andamento ritmico del discorso è molto simile alla musica, la voce stessa del narratore è musica e, come tale, è un linguaggio da inventare. «La voce – dichiara Vacis – diventa strumento che parla attraverso lo spartito che è il testo di Novecento». Le parole sono note musicali su un ritmo che non si conosce, proprio come la musica di Novecento sul pianoforte, una musica mai ascoltata prima.
Calano le luci e quando si riaccendono siamo a bordo del Virginian: un occhio di bue puntato illumina il presentatore che dà il benvenuto agli ospiti nella sala da ballo della prima classe. Lo spazio è amplificato da un gioco di luci e ombre che si proiettano ai due lati del palazzetto, creando un effetto avvolgente e di inclusione nella scena.
Poi, la burrasca, e il fondale diventa mare in tempesta, acqua travolgente. Ed è in quel momento che il narratore fa l’incontro di Danny Boodman T.D. Lemon Novecento: «Fu a quel punto che arrivò uno, tutto vestito elegante, in scuro, camminava tranquillo, mica con l’aria di essersi perso, sembrava non sentire nemmeno le onde, come se passeggiasse sul lungo mare di Nizza: ed era Novecento». La scena della danza sull’oceano, a bordo del pianoforte, «sul dorato parquet della notte» del Virginian, amplificata in modo epico nel film La leggenda del pianista sull’oceano (regia di Giuseppe Tornatore,1998), in teatro è, invece, sintetizzata nell’oggetto del piccolo pianoforte che volteggia, lanciato dal mare. Quel pianoforte diventa personaggio sulla scena e, sulle note di una colona sonora perfetta, incanala l’attenzione e riempie lo spazio.
Il tono scanzonato, allegro, gridato, la voce acuta e alta che hanno caratterizzato il testo si trasformano sul finale, al momento del saluto tra i due amici per la pelle: complice la grandezza di Allegri, le luci soffuse e la colonna sonora limpida, l’emozione è a fior di pelle, la percepisci come energia attorno a te.
Come finisce Novecento, tutti lo sappiamo. Ma forse, invece, no, perché il finale resta aperto, come sospeso. Lo spettacolo finisce e c’è silenzio in sala, un silenzio denso, pieno di carica emotiva. I brividi, quelli restano addosso. Poi Eugenio Allegri, ancora in penombra, si avvicina e fa un inchino.
Scrosciano gli applausi, che si fanno sempre più intensi e proseguono ininterrotti per parecchi minuti. L’attore di Novecento, che ormai è Novecento stesso, viene ringraziato dal pubblico con una standing ovation.
Claudia Farina
Foto @ Maurizio Anderlini