“Kohlhaas”, il teatro e la necessità del racconto orale.
Intervista al regista e attore Marco Baliani

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LECCO – È uno dei più importanti personaggi del teatro italiano e venerdì 1 dicembre ha portato sul palco dello Spazio Teatro Invito di Lecco uno spettacolo che ha segnato un’epoca e un modo di fare teatro: Kohlhaas (qui l’articolo di presentazione). Stiamo parlando di Marco Baliani, regista e attore che abbiamo intervistato alla vigilia della replica numero 1.060 del suo famoso lavoro del 1989.

“Kohlhaas” è lo spettacolo che ha inaugurato un nuovo modo di fare teatro in Italia e che ha dato il via alla grande stagione del teatro di narrazione. Uno spettacolo che però riprende una tradizione antica, quella del racconto orale. Qual è stata, secondo lei, la grande novità di “Kohlhaas”? Che cosa dello spettacolo è stato percepito come nuovo e innovativo?

marco balianiKohlhaas ha colpito perché ha riproposto un genere di teatro che non si faceva più e che si era perso. Il fatto stesso di vedere un attore solo sul palco – seduto su una sedia e pronto non solo a raccontare una storia, ma a far rivivere un’incredibile serie di azioni e di scene solamente con la sua parola e il suo corpo – ha sicuramente incuriosito. Il corpo è una parte essenziale della narrazione orale: si capisce subito quando un attore ha solamente imparato la parte a memoria e quando, invece, si è preparato, ha provato e studiato il modo di stare sul palco, i movimenti giusti per coinvolgere lo spettatore.

Lo spettacolo che andrà in scena a Lecco è quasi trent’anni che viene rappresentato. Cosa è cambiato dalle prime recite?

Lo spettacolo è cambiato, esattamente come è cambiato il mio corpo. Ho modificato alcune cose, uso in maniera diversa i tempi, mi gestisco in modo differente, non posso più recitare come trent’anni fa. Il teatro orale si deve adattare alla situazione, a chi ha davanti. Con il passare degli anni ho aggiornato anche interi pezzi, proprio per adeguarmi al cambiamento dei tempi: nel 1989 non c’erano, ad esempio, le serie televisive che oggi sono entrate nell’immaginario di tutti noi.

Nello spettacolo riflette sul tema del rapporto tra giustizia e ingiustizia, cosa che ha ripreso in numerosi altri lavori. Perché nella sua carriera ha deciso di esplorare più volte questa tematica?

Questo è sicuramente dovuto al mio imprinting, al fatto di provenire da una generazione che ha vissuto il 1968 e gli anni Settanta, quando per inseguire un ideale di giustizia si è a volte deciso di intraprendere la lotta armata. Penso sia un tema sempre affascinante e, soprattutto, di grande attualità: nel mondo di oggi è infatti evidente una carenza di giustizia.

In “Kohlhaas”, come in altri spettacoli da lei portati in scena (si pensi a “Human” andato in scena lo scorso anno al Teatro della Società), non fornisce quasi mai soluzioni allo spettatore, preferisce porre interrogativi. Secondo lei il teatro ha anche il compito di dare risposte?

Per me la funzione principale del teatro è quella di instillare dubbi negli spettatori, inquietarli, creare nel pubblico un disagio. Altri la pensano diversamente e portano avanti un percorso con il cosiddetto teatro civile, nel quale raccontano come si dovrebbero fare le cose. Questo modo di fare teatro personalmente non mi interessa.

Com’è la situazione del teatro di narrazione in Italia? Ha perso la sua forza propulsiva oppure è ancora in grado di giocare un ruolo importante?

kohlhaasÈ difficile rispondere a questa domanda. Il teatro di narrazione ha avuto nel corso degli anni tantissime ramificazioni. Ci sono in circolazione cose molto differenti, tante sperimentazioni, alcune belle e altre meno. Ci sono ad esempio molti giovani che si danno da fare e producono cose forti e incisive, mentre c’è chi prosegue in quella tendenza del teatro civile che, come ho già detto, non mi appartiene. Non pretendo di sapere quale sia la ricetta del teatro di narrazione, posso dire però che sarebbe meglio parlare di teatri di narrazione al plurale.

Per concludere, ha da poco pubblicato un libro dal titolo “Ogni volta che si racconta una storia”. Ritiene abbia ancora senso raccontare storie oralmente in una società come quella di oggi, sovraccarica di stimoli visivi?

Non lo so se ha senso, sono fiducioso, però non ne sono sicuro. Magari in un futuro non serviranno più neppure gli attori e non ci si parlerà nemmeno più. Da quello che osservo però mi sembra che il racconto orale funzioni ancora: i ragazzi parlano in continuazione fuori dalle scuole e si raccontano di tutto. L’umanità, in fin dei conti, è nata quando gli uomini si sono incontrati e hanno iniziato a parlarsi e ad ascoltarsi.

 Daniele Frisco

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L'autore di questo articolo

Daniele Frisco

È il flâneur numero uno, ideatore e cofondatore del giornale. Seduto ai tavolini di un qualche bar parigino, lo immaginiamo immerso nei suoi amati libri, che colleziona senza sosta e che non sa più dove mettere. Appassionato di Storia e, in particolare, di Storia culturale, è un inarrestabile studente (!): tutto è per lui materia da conoscere e approfondire. Laurea? Quale se non Storia del mondo contemporaneo?! Tesi? Un malloppo sul multiculturalismo di Sarajevo nella letteratura, che gli è valso la lode. Travolto da un vortice di lavori – giornalista, insegnante di Storia, consulente storico e istruttore del Basket Lecco – tra una corsa di qua e una di là ama perdersi nel folk-rock americano, nei film di Martin Scorsese e di Woody Allen, nella letteratura mitteleuropea e, da perfetto flâneur, nelle strade della cara e vecchia Europa. Per contattarlo: daniele.frisco@ilflaneur.com