Lo scorso 17 gennaio è salito sul palco del Teatro della Società di Lecco per cimentarsi, in doppia veste di regista e attore, con un testo shakespeariano dei contrasti come Misura per misura. Si tratta di Jurij Ferrini, attore che in questa intervista ci parla dell’opera in scena, del suo rapporto con il Bardo e di un teatro che non dà risposte ma pone domande, che guarda ai classici perché testi “vecchi” che hanno sempre qualcosa di nuovo da dire.
Jurij Ferrini, la settimana scorsa ha portato a Lecco l’opera shakespeariana “Misura per misura”, testo scritto da Shakespeare nel 1603 e che spesso viene definito “problem play”, perché al suo interno ha elementi sia di commedia che di tragedia. È anche questo aspetto che l’ha affascinata?
Assolutamente sì. Misura per misura è un testo completo. Ha la forza della tragedia senza mai arrivare al sangue, è dialettico e ha degli elementi umoristici dai toni raffinati, con il tentativo di concussione da parte di un giudice nei confronti di una novizia, che è molto divertente, fino alla vera e propria comicità. Credo sia una delle opere shakespeariane da questo punto di vista più belle e più complete.
L’opera affronta temi complessi e stratificati e direi molto attuali che, come la commedia e il dramma, si alternano e spesso si fondono tra loro. Quali tra i temi contrapposti sono a suo parere i preponderanti?
Il tema principale direi che è il rapporto difficile e complesso tra la grazia e la giustizia, tra la pietà e il bisogno di giustizia, perché alla fine è lungo il cammino fino allo snodo finale, ovvero il perdono di Isabella nei confronti del suo carnefice, colui che secondo lei ha fatto giustiziare ingiustamente il fratello. Non è altro che un tentativo di Shakespeare di insegnarci la virtù e l’arte del perdono, che sono una pratica difficilissima. Se pensiamo ai conflitti di interi popoli nel mondo e anche da noi in termini più economici, il perdono e la pace sono vie alle quali è difficile accostarsi. L’attualità paradossalmente non si è evoluta, è rimasta indietro. Shakespeare da artista e artigiano conosceva molto bene l’animo umano e questo ancora oggi ci fa commuovere, sognare e ridere.
“Misura per Misura” è una commedia che affascina anche probabilmente per la sua bivalenza, per il suo riferimento al doppio, al bene e al male che spesso si mescolano. Si può dire che sia un’opera che non regala antidoti e che porta verso una consapevolezza più chiara del male, della corruzione, risultando molto attuale?
Il teatro non è il luogo delle risposte, ma delle domande. E ci sono domande che, se prese sul serio, portano ogni persona a costruirsi una risposta e a mettere in crisi una risposta facile. La giustizia non è solo una punizione. Per fortuna in Europa Occidentale la pena di morte non c’è più, e il paese occidentale più vicino che ora ricordo, che la utilizza, sono gli Stati Uniti. Da noi si finisce in carcere, ma la giustizia è qualcosa di più umano, più complesso.
Ci racconta una storia, Shakespeare, e lo fa attraverso tante domande e tanto divertimento. Ridere e piangere sono peculiarità importanti dell’animo umano. Qui si ride molto. Scegliere di non ridere è per me radical-chic, in realtà si può ridere a tanti livelli: la risata è catartica, e come il pianto è incontrollabile. Non è proprio una storia strappalacrime, è commovente in certi frangenti ma si ride tanto. E si riflette altrettanto.
La traduzione è quella del 1992 affidata a Garboli per l’allestimento di Ronconi. Una traduzione che la soddisfa anche rispetto ad altre opere da lei messe in scena di Shakespeare?
Per me Garboli è stato il più grande traduttore italiano di Shakespeare. Era un grande uomo di cultura e aveva anche l’umiltà, rispetto ad altri poeti, di farsi un po’ da parte, senza anteporre il proprio ego all’opera che stava traducendo, sapendo mettersi quel tanto in gioco per poter riscrivere con grande maestria un’opera, a detta dello stesso traduttore, praticamente impossibile da tradurre, perché è scritta in una lingua monosillabica, come il cinese, e quindi contiene svariati significati ad ogni sillaba. In realtà lui ha compiuto un lavoro meraviglioso. Sia in prosa che in versi.
Qual è la difficoltà maggiore del doppio ruolo regista/attore a teatro?
La difficoltà maggiore è, da regista, il non riuscire mai a vedere il tuo spettacolo. Il vantaggio è che sviluppi un certo occhio esterno e interno, cerchi di capire da dentro cosa s’immagina il pubblico ma è molto faticoso. Ogni tanto vorresti avere un doppione al posto tuo. Forse, per quanto mi riguarda, non sono ancora abbastanza bravo da regista ma posso ancora crescere e imparare.
Il suo rapporto con Shakespeare, visto che nel corso della sua carriera si è cimentato anche con tanti altri autori classici come Rostand recentemente, Williams, Beckett…
Ho messo in scena almeno otto testi di Shakespeare in venticinque anni di carriera teatrale e indubbiamente lo amo particolarmente. Ma come si fa a non amarlo, è impossibile. Non sono uno di quelli che si annoiano a metterlo in scena. Lo conosco abbastanza bene anche se non si finisce mai di conoscerlo profondamente. Altri testi li ho incontrati più volte, come lo stesso Misura per misura. Tuttavia ogni volta ci si ritorna con una maturità diversa.
In teatro di questi tempi c’è la moda di cercare il “nuovo” a ogni costo. Ma il “nuovo” non arriva quasi mai da idee originali, essendo attaccato al “vecchio”. Personalmente credo che si debba cercare nel “vecchio” e penso che il “nuovo” a teatro sia sempre il pubblico.
Quali progetti riserva il futuro?
Nel mio futuro ci sarà tanto teatro. Voglio sottolineare, infine, la mia collaborazione con una scuola di perfezionamento per attori a Moncalieri, la Shakespeare School, alla quale sono molto legato.
Davide Sica