CALCO – La vecchia Mitteleuropa, con il suo crogiolo di lingue e i grandi hotel di lusso, dove un ungherese può sedersi al tavolo accanto a uno jugoslavo, mentre un cameriere ceco serve delle ottime granite al lampone. È lei la protagonista. O quello che ne rimane dopo la fine della prima guerra mondiale, quando in una Praga capitale della recente Cecoslovacchia si aggirano personaggi che parlano lingue diverse ma che si capiscono, reduci di quella grande cultura cosmopolita che fu dell’impero austro-ungarico.
Lo spettacolo andato in scena nella serata di sabato, nel piccolo anfiteatro della basilica di Arlate (Calco), è stato innanzitutto un tuffo in quel mondo, nelle sue contraddizioni, nel contrasto tra il vecchio multiculturalismo asburgico e l’imposizione, sul finire degli anni Trenta, di una razza sopra le altre, follia nazionalsocialista. Primo appuntamento con la rassegna I luoghi dell’Adda di Teatro Invito, che sino al 6 luglio proporrà spettacoli e concerti in località poste lungo il fiume, Il mio nome è Bohumil di Jacob Olesen, Giovanna Mori e Francesco di Branco ha portato in scena il testo Ho servito il re d’Inghilterra dello scrittore ceco Bohumil Hrabal. Un’ora e un quarto circa in cui Olesen, autore e attore, ha monopolizzato l’attenzione del pubblico presente.
Nessuna scenografia, poche e semplici luci, soltanto una valigia e qualche canzone ad accompagnarlo: Olesen ha rapito gli spettatori e li ha trasportati con la mente nell’Hotel Paris di Praga, dove commessi viaggiatori, veterinari, giudici, persino l’imperatore d’Etiopia, posso sedere ai tavolini del ristorante, intrattenersi in discorsi spesso superficiali, rimanere ancorati a un mondo che sta pian piano scomparendo. Un’abilità non troppo comune, quella dell’attore, che oltre a rendere visivo nella mente dei presenti quanto raccontato con le sole parole, dalla granita al lampone ai fiori sparsi sul ventre della sua donna, ben ha saputo rendere i diversi idiomi mitteleuropei, dal ceco al tedesco. Continui cambi di lingua, di postura, di gesti, hanno caratterizzato, infatti, i vari personaggi, sempre e comunque ottimamente interpretati dal solo monologhista.
Ma il protagonista di Il mio nome è Bohumil, al di là della vecchia Mitteleuropa, è pur sempre il piccolo Bohumil, quel cameriere ambizioso, che tanto desidera fare carriera e guadagnare da non accorgersi che il suo mondo, quello che ama, è in trasformazione. Un pericolo che viene proprio da coloro che lui, a differenza dei colleghi del Paris, intende trattare con gentilezza: i tedeschi in arrivo dal terzo Reich. “Cosa?”, “Il Reich”, gli risponde la donna che sposerà, una tedesca che per concepire un figlio ascolta Wagner per ore. Il nazionalismo che avanza, il multiculturalismo che indietreggia. No, quella parola, Reich, probabilmente non dice molto al piccolo Bohumil, così come i discorsi sulla superiorità della razza ariana. Ingenuo, incapace di cogliere le sfumature del suo tempo, Bohumil sposa la donna e si incammina verso un nuovo lavoro, in un albergo della Boemia in cui tutti parlano tedesco. Da una parte il Paris di Praga, col suo cosmopolitismo, dall’altra il Paradiso della Boemia, paradiso, in realtà, dell’ariano.
Ingenuo, dicevamo, fino a quando, seduto sul “cucuzzolo” di un monte, il piccolo cameriere rifletterà sul desiderio di lasciare trasportare una parte del suo corpo dal fiume Moldava verso l’Elba e il Mar del Nord, mentre l’altra fino al Danubio e il Mar Nero, per poi finire nel Mediterraneo e nell’Oceano. Una metafora, la sua, che riflette la voglia di tornare a Praga. Di essere, ancora, un cosmopolita.
Valentina Sala