LECCO – «Nascondiamo, nascondiamo! Già, ripariamo! vestiamole queste vergogne! Vergogna è dirle, certe cose. Farle, non è niente!».
«Vergogna è dirle certe cose, farle non è niente»: parole scritte cento anni fa da Luigi Pirandello, ma che ancora oggi risuonano forti e chiare. Meglio, infatti, nascondere tutto quello che riguarda la sfera domestica, anche i tradimenti, i soprusi, le violenze. Meglio è, per usare un’espressione abusata, lavare i panni sporchi in casa, perché in fondo è l’apparenza quella che bisogna salvare. «Questa è la vita – fa infatti dire Pirandello a Ciampa – Conservare il rispetto della gente… Tenere alto il proprio pupo ‑ quale si sia ‑ per modo che tutti gli facciano sempre tanto di cappello». Frase, questa, che riassume bene una delle tematiche più affrontate dallo scrittore di Girgenti, ossia la dicotomia apparire-essere, al centro anche di uno dei suoi più noti lavori, Il berretto a sonagli, andato in scena sabato 30 gennaio al Teatro della Società di Lecco.
Una versione dello spettacolo, quella messa in scena dal Teatro di Dioniso, nella quale il regista Valter Malosti ha voluto recuperare parti del testo originale in dialetto siciliano, che Pirandello non aveva pubblicato a favore della successiva versione italiana, più breve e mitigata. Una scelta rischiosa per Malosti, che ha fatto però emergere alcuni elementi che nella più celebre versione italiana faticavano a venire a galla. Sì, perché il dialetto siciliano ha dato ai personaggi una nota differente, facendoli risultare in alcuni casi più comici, in altri più duri e spietati, senza mai, però, scadere nel macchiettismo o nella caricatura che a volte il vernacolo rischia di attirare. Gli attori, guidati dal regista, forzano infatti i toni senza mai superare questo confine.
Figura centrale di questa versione è senza dubbio Beatrice, interpretata da un’ottima Roberta Caronia in continuo movimento sia fisico che psicologico, che ha reso la donna sensuale, folle, determinata e insicura allo stesso tempo. Beatrice è infatti una figura femminile che si rivolta alla sua condizione, che vuole denunciare il tradimento del marito a differenza di Ciampa, il quale invece accetta l’infedeltà della moglie, purché nessuno lo venga a sapere. È quindi una donna moderna, novecentesca, che non subisce più le regole imposte da una società maschilista, dove le signore sono come l’impeccabile e sottomessa madre Assunta (Paola Pace) e devono sempre stare, come suggerito dalla serva Fana (Cristina Arnone), con le «labbra cucite», lontano da scandali e vergogne. Con il suo gesto Beatrice è infatti consapevole di perdere tutte le certezze. Sarebbe più comodo accettare la sua condizione, vivere una vita tranquilla, continuare a essere rispettata, ma preferisce, come afferma più volte, la libertà che è, allo stesso tempo, anche la precarietà. Il personaggio lotta e sembra farcela, ma deve poi soccombere a una società che considera anormale e folle colui che osa gridarle in faccia la verità, come Pirandello fa dire a Ciampa. La donna viene infatti ricoverata in manicomio, così da mettere tutto a tacere.
Se Beatrice può essere considerata, per dirla come Camus, in rivolta, il personaggio di Ciampa è invece l’opposto, ossia rappresenta colui che sta bene in un mondo fatto di ipocrisie e manovrato da quella che lui stesso chiama la corda civile, in grado di condizionare il suo pupo. Anche Ciampa, in realtà, incontrerà la follia, ma solo quando la sua verità di uomo tradito sarà pubblica. È lo stesso Malosti a interpretare il personaggio, un ruolo ostico, anche perché abbiamo ancora negli occhi le numerose interpretazioni di mostri sacri, quella di Salvo Randone su tutte. Ma l’attore e regista, con la nuova/vecchia scelta lessicale, rende il personaggio diverso, evitando quindi il rischio dell’imitazione o del confronto. Il Ciampa di Malosti appare, infatti, all’inizio più leggero, divertente e scanzonato del solito, per poi trasformarsi completamente nell’ultima parte dello spettacolo. Diventa infatti un personaggio dagli echi quasi kubrickiani, psicologicamente distrutto e con un’accetta in mano pronta a uccidere. Il regista qui sembra seguire alla perfezione l’indicazione di Pirandello, che in una lettera descrive il suo personaggio dai «gesti, andatura, modi di parlare, pazzeschi. Cosicché – continua – dovrà nascere il sospetto e la paura che a un dato momento egli possa uccidere».
Accanto ai due protagonisti appare un insieme di uomini e donne coerenti con il contesto: dal fratello di Beatrice Fifì (Vito di Bella), molto più crudele e pungente con la sorella rispetto alle precedenti versioni, al buffo e ridicolo delegato Spanò (Paolo Giangrasso), che mostra efficacemente tutta l’assenza e la goffaggine dello stato nello stare dalla parte di chi rivendica i propri diritti. Personaggi, questi, che si muovono su di una pedana a scacchi inclinata, dove giocano le loro partite, su tutte quella tra Beatrice e Ciampa. Alle spalle, però, ecco un grosso specchio, artificio forse utilizzato da Carmelo Giannello (alla scenografia) per sottolineare la doppiezza dei personaggi. Sembra infatti ricordare a quelle persone che si agitano e discutono sulla scacchiera di non essere altro che pupi desiderosi di apparire e di nascondere la loro vera essenza.
Un testo, quello del grande drammaturgo, che ha già dentro tutto, la rivolta, il potere, la doppiezza, la follia, il vuoto senso dell’onore, e che Valter Malosti è riuscito a rivitalizzare senza stravolgerne il senso, ma anzi recuperando ciò che si era perso.