Dall’America intollerante dei ruggenti anni Venti alla Parigi degli années folles, fino alla Berlino di Weimar. Eccoci al secondo appuntamento della nostra rubrica Fotogrammi dal Novecento, che in queste settimane ci conduce alla scoperta – o alla riscoperta – di pellicole che meglio hanno raccontato alcuni dei più importanti avvenimenti del Secolo Breve. Nella seconda (e poi anche nella terza) puntata affronteremo anni travagliati: quelli tra le due guerre. Decenni purtroppo meno lontani di quanto ci si aspetterebbe, caratterizzati da nazionalismi, fermenti rivoluzionari, ostilità per la complessità e il parlamentarismo, voglia di ordine, semplificazioni, uomini forti e nuovi orizzonti da inseguire con un integralismo fanatico. Decenni che, però, hanno anche visto grandi capitali europee sviluppare una libertà creativa senza precedenti.
Proprio per la loro importanza, agli anni Venti e Trenta dedicheremo due appuntamenti. Prima di concentrarci sul fenomeno centrale dei due decenni, quello dei totalitarismi, parleremo di alcune pellicole che hanno raccontato di altri aspetti importanti: dal misto di xenofobia e pregiudizio politico dell’America dei Roaring Twenties all’esplosione di creatività della Parigi anni Venti e della Berlino di Weimar.
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L’America degli anni Venti: “Sacco e Vanzetti” di Giuliano Montaldo (disponibile in streaming su RaiPlay)
Partiamo dall’America dei ruggenti anni Venti: un decennio dove tutto pare possibile, nel quale gli Stati Uniti manifestano la loro forza, dove sembra che chiunque possa arricchirsi e acquistare beni di consumo che presto saranno l’essenza dell’American Way of Life. Un mondo caratterizzato da un desiderio di vivere al di sopra delle proprie possibilità, una bolla di apparente benessere che esploderà con la crisi del 1929. Ma negli anni Venti, sotto l’abbagliante apparenza, esiste anche un paese rancoroso e arrabbiato, nel quale il Ku Klux Klan registra la sua massima espansione e comincia a perseguitare non solo gli afroamericani, ma anche altre minoranze. Un Paese soffocato da un insopportabile e ipocrita moralismo, che da un lato proibisce la produzione e il consumo di sostanze alcoliche e dall’altro li tollera nei locali clandestini riforniti dai gangster. Locali in cui uomini e, per la prima volta, donne ballano al suono di una nuova e trascinante musica jazz: il charleston.
Venendo al cinema, sono tante le pellicole che parlano di questi anni, a partire dalle due trasposizioni cinematografiche del capolavoro di Francis Scott Fitzgerald Il Grande Gatsby, da musical come Chicago o dai numerosi gangster movies ambientati negli States del proibizionismo. Nel nostro speciale preferiamo concentrarci, invece, su altri due aspetti meno appariscenti ma molto importanti: la xenofobia e la Red Scare, la paura rossa diffusasi in America dopo la rivoluzione bolscevica del 1917. Per farlo ci viene in aiuto un famoso lungometraggio, in cui convergono entrambi i fenomeni, qui trattati a partire da un unico fatto di cronaca. Si tratta del classico del cinema politico italiano anni ’70 Sacco e Vanzetti di Giuliano Montaldo, con Gian Maria Volonté e Riccardo Cucciolla e con l’indimenticabile colonna sonora di Ennio Morricone, incluso il classico generazionale Here’s to you cantato da Joan Baez.
Il film racconta una storia celebre ed emblematica: quella del pescivendolo Bartolomeo Vanzetti e del calzolaio Nicola Sacco. Lavoratori italiani emigrati in America nel decennio precedente e accomunati dal fatto di essere non soltanto italiani ma anche anarchici, i due saranno ingiustamente condannati a morte per rapina a mano armata e omicidio. Una vicenda, questa, che mette in luce i principali pregiudizi degli Stati Uniti degli anni Venti: quello contro gli immigrati dall’Europa, arrivati a milioni nei decenni precedenti, e quello contro coloro – anarchici, comunisti, socialisti e sindacalisti – che vengono definiti pericolosi sovversivi. Memorabile, a questo proposito, il discorso pronunciato da Vanzetti (uno dei più grandi monologhi di Gian Maria Volonté) prima della condanna e che fa capire le vere ragioni della condanna (QUI IL MONOLOGO).
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La Berlino di Weimar: “Cabaret” di Bob Fosse
Spostiamoci nel Vecchio Continente per un film che racconta perfettamente il clima della Repubblica di Weimar alla vigilia della presa del potere da parte di Hitler. Stiamo parlando di Cabaret, musical di Bob Fosse del 1972 con Liza Minnelli e ispirato ai racconti berlinesi dello scrittore inglese Christopher Isherwood. Un film che permette di immergerci nell’incredibile Berlino di Weimar, città ribelle, con locali notturni aperti tutta la notte, spettacoli di cabaret e innovazioni culturali di ogni tipo, dalla musica al teatro, dal cinema alla letteratura, dall’arte all’architettura. In questo particolare periodo e insieme a Parigi, la capitale tedesca rappresenta il centro culturale più dinamico di tutto il mondo: nei suoi viali e locali trasgressivi si possono incontrare personaggi del calibro di Bertold Brecht, Max Reinhardt, Kurt Weil, Alfred Döblin, Otto Dix, George Grosz, Fritz Lang, Robert Wiene, Friedrich Wilhelm Murnau, Marlene Dietrich e molti altri.
Un grande fermento culturale, quello dei Goldene Zwanziger, che va di pari passo con fortissime tensioni ideologiche, tra tentativi rivoluzionari e di colpi di stato, insanabili instabilità politiche e insormontabili difficoltà economiche, che all’inizio degli anni Trenta spianeranno la strada al partito nazionalsocialista di Adolf Hitler. A questo proposito, proprio Cabaret regala una scena perfetta per comprendere le ragioni dall’adesione al nazismo di gran parte della popolazione tedesca: in una locanda all’aperto, un giovane nazista intona uno struggente canto dedicato alla patria (Tomorrow belongs to me) e in breve tempo coinvolge quasi tutti i presenti, persone comuni, giovani, donne, anziani e bambini in un crescendo agghiacciante (QUI IL VIDEO DEL CANTO). Una scena che sembra tratta direttamente dal fondamentale libro La nazionalizzazione delle masse dello storico George Mosse.
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La Parigi degli anni Venti: “Midnight in Paris” di Woody Allen (disponibile in streaming su Netflix)
Chiudiamo questa puntata di Fotogrammi dal Novecento con un film diverso dai precedenti, una commedia utile per scoprire il clima degli anni Venti nell’altra grande capitale della cultura mondiale: Parigi. Una città, questa, che nei decenni tra le due guerre mondiali attrae scrittori e artisti da tutto il mondo, che proprio qui trovano un rifugio di libertà, un riparo per fuggire dal puritanesimo americano e dai regimi autoritari europei. Il film che abbiamo scelto è Midnight in Paris di Woody Allen, divertente riflessione del grande regista newyorkese sull’effimero concetto di epoca d’oro. Il protagonista, interpretato da Owen Wilson, è uno scrittore di sceneggiature che viene catapultato in quella che per lui è proprio l’epoca d’oro, la Parigi degli anni Venti, luogo in cui potrà conoscere tutti i suoi miti letterari.
La Parigi di questi anni è, come anticipato, il punto di ritrovo per tutti gli scrittori emergenti della letteratura americana, appartenenti a quella che la grande critica letteraria Gertrude Stein – presente anche lei nel film – definisce, come riportato in Festa Mobile di Hemingway, Generazione Perduta. Nel film vengono ritratti scrittori e poeti quali Francis Scott Fitzgerald, Ernest Hemingway, T. S. Elliot, ma anche grandi artisti e personalità centrali dell’arte e della cultura del Novecento, da Pablo Picasso a Salvador Dalí, da Luis Buñuel ad Amedeo Modigliani, da Man Ray a Cole Porter, tutti nella capitale francese per farsi ispirare e, allo stesso tempo, contribuire a rendere indimenticabile l’atmosfera di questi anni, tra una festa, un drink nei locali di Montparnasse e uno spettacolo della grande Joséphine Baker. Un film che naturalmente non fa della precisione storiografica la sua forza, ma che attraverso il racconto ironico di questi indimenticabili personaggi ci fa respirare il clima di anni irripetibili.
Daniele Frisco