Uno sci-fi ambizioso, in cui il regista Christopher Nolan parte da un concetto per niente fantascientifico e assolutamente veritiero: la plausibilissima “apocalisse” delle risorse ambientali. Una Terra arida, che questa volta non deve essere salvata, bensì abbandonata, per andare alla ricerca di un mondo migliore. Si tratta di “Interstellar”, l’ultimo lavoro del regista londinese.
LECCO – È sicuramente tra i film più discussi delle ultime settimane, con schiere di cinefili a favore o contro, ma Interstellar di Christopher Nolan non può in ogni caso affrancarsi dall’etichetta di pellicola del mese di novembre. Uno sci-fi ambizioso, come ambiziosa è sempre stata la filmografia del regista londinese, piena di fascinazione e gusto per il rompicapo e le sovrastrutture. Come un prestigiatore dell’arte cinematografica, anche nelle sue opere apparentemente più semplici e minimal Nolan ha quasi sempre saputo portare alchimia tra la grandiosità che può regalare il cinema e l’asciutta complessità della sua violenta e angosciosa narrativa. Interstellar non è da meno, e già dai plot e dalle clip diffusi mesi prima, l’attesa è esponenzialmente cresciuta, soprattutto perché per la prima volta il regista si è cimentato in un genere così paradossalmente antitetico ma allo stesso tempo vicino al suo stile.
Un film di fantascienza è per definizione, nonostante in questo caso si cerchi di sezionarlo come fosse un trattato di astrofisica, attivato da un meccanismo di ipotetiche teorie matematiche, tecnologiche e scientifiche dalle quali poi si sviluppa una trama alle volte affascinante ma essenzialmente lontana dalla realtà. Con questo film Nolan cerca di assottigliare la differenza tra fantasia e realtà prossima, cercando di non venir meno alla fascinazione enigmatica di cui sopra.
Ambientato in un futuro nemmeno troppo lontano, nel quale la Terra è ormai stata quasi completamente prosciugata dalla scellerata attività umana, il regista parte da un concetto per niente fantascientifico e assolutamente veritiero: la plausibilissima “apocalisse” delle risorse ambientali. Un mondo arido, quindi, contrassegnato da perenni tempeste di sabbia ispirate ai famosi documentari di Ken Burns sul Dust Bowl. È in questo contesto, dove l’agricoltura è l’unico ambito possibile e bisognoso e in un disperato tentativo di ottimizzare ciò che ancora la Terra riesce a donare, che vive il protagonista Cooper (Matthew McConaughey), ex ingegnere e pilota frustrato dalla sua obbligata occupazione di agricoltore, ma determinato a non rassegnarsi. Insieme a lui il suocero e i suoi due figli, il giovane Tom e la piccola Murph, quest’ultima legata al padre da un profondo amore per la scienza. Interstellar nasce da qui, dalla ricerca di un incipit plausibile, da inserire in una dinamica fantascientifica.
Attingendo al suo amore malinconico e ossessivo per raggiungere il cuore e lo stupore dello spettatore, Nolan non rinnega il tradizionalismo e la mancanza volontaria del 3D. Dopo aver indagato le sovrastrutture dolorose della mente e dei sogni in Inception, giocato con la memoria e i ricordi in Memento e incantato con l’illusione e il rancore in The Prestige, nemmeno di fronte all’idea di realizzare un kolossal di queste dimensioni Nolan si abbandona all’uso del digitale. Tutto ciò a ulteriore dimostrazione di quanto ancora conti nel cinema il genio creativo rispetto alla tecnologia, di quanto la tecnologia sia un valore aggiunto, ma nulla più, all’originalità narrativa. E tutto ciò è perlomeno bizzarro se rapportato a Interstellar, un film che racconta di una quinta dimensione e lo fa senza l’ausilio delle più moderne tecniche filmiche. Grazie alla consulenza del fisico Kip Thorne, Nolan cerca di normalizzare e credibilizzare ogni passaggio, incappando certamente in qualche imperfezione e facendosi talvolta accompagnare dall’improbabilità fantascientifica. Ma qui non si tratta di dibattere su un documentario: intestardirsi in disquisizioni su buchi neri e licenze scientifiche fantasiose è sterile, poco sensato. Interstellar è un film la cui centralità è insita nell’empatia e nell’amore, come fiammella esistenziale e snodo cruciale di ogni essere umano, anche al di là della nostra galassia.
Nolan propone l’argomento senza banalità e senza scorciatoie, cercando di elevare l’amore a unico fattore che trascenda il tempo e lo spazio. Questa profonda umanità e la sua connessione col passaggio inesorabile del tempo sono le corde che il regista prova con successo a far emergere al di là del tema fantascientifico. Il viaggio interstellare di Cooper, insieme a un equipaggio della NASA alla ricerca di un un nuovo pianeta, ribalta il concetto più diffuso in questo genere di film: non più il tentativo di salvare la Terra, ma di lasciarla, non salvare il proprio nido ma abbandonarlo per trovarne uno migliore. Valore aggiunto, poi, un cast ben scelto, con Anne Hathaway, Jessica Chastain, Sir Michael Caine e Mackenzie Foy, in un capolavoro di complessa fantascienza che gioca coi silenzi dell’universo.
Non un capolavoro, certo, dal punto di vista tecnico: alcune sbavature aiutano troppo facilmente a snodare certi passaggi. Ma stiamo parlando di inezie: per la potenza e la forza cinematografica che restituisce allo spettatore Interstellar raggiunge picchi altissimi, avvicinandosi senza sfigurare a pietre miliari come 2001: Odissea nello spazio. Ingiusto fare paragoni e creare accostamenti tra film così distanti epocalmente, ma altrettanto sbagliato è rapportarsi snobisticamente sia a un cinema che non passa mai inosservato che a capolavori del grande schermo del Novecento. Senza dover compiere un viaggio interstellare nel cambiare prospettiva, ma cercando di godere anti retoricamente della visione di un film imponente e travolgente come Interstellar, forse si riuscirà anche a rimanere incantati nell’ascoltare le sinfonie drammaticamente interiori di Hans Zimmer, impreziosite dalla poetica citazione di Dylan Thomas: “Non andartene docile in quella buona notte”.
Davide Sica