Margherita è una regista cinematografica di successo che vive un periodo complesso della sua vita. Durante le riprese del suo nuovo film si trova a dover sopportare le bizzarre trovate dell’attore americano Barry Huggins, mentre nel privato le sue insicurezze riemergono, tra un matrimonio fallito da tempo, il rapporto con la figlia quasi adolescente e la malattia della madre. Nelle sale italiane a partire dal giovedì 16 aprile, “Mia madre” è l’ultimo lavoro di Nanni Moretti. Ecco la recensione.
Habemus Nanni. È proprio il caso di dirlo, anzi urlarlo, liberando anima e corpo da tutta quella mediocrità cinematografica italiana che da tempo immemore ormai ci ha occluso, critica e pubblico, le arterie della bellezza filmica e artistica. Con delle eccezioni, ogni tanto, certo. Delle boccate d’ossigeno. Nanni Moretti, per esempio. Il suo cinema è così. Onesto, riflessivo e umano. Verrebbe da dire che il suo è cinema.
Mia madre s’incastona tra gli Ottomila della sua filmografia, la vetta certamente più compiuta e matura, perché abbatte i suoi schemi, svicola da un cinema dai risvolti sociali più netti e completa idealmente il suo percorso intimo, ciò che nel 2001 aveva iniziato lui stesso, con La stanza del figlio. Come da tempo accade, anche in Mia Madre Moretti si defila dall’obiettivo della macchina da presa, si porta ai margini della scena, lasciando lo spazio necessario agli altri personaggi, agli interpreti di un meccanismo da lui comunque plasmato. Un meccanismo che paradossalmente parla di lui. Non è dato sapere quanto ci sia di autobiografico nel film, ma che Moretti con quest’opera, ricca di umanità e dolore, ci voglia aprire un piccolo ingresso nel suo vissuto è ragionevole pensarlo. Ed è singolare notare quanto tutto ciò accada proprio nel film in cui il suo personaggio è il più asciutto e razionale. Perché qui, Nanni, preferisce che il peso del suo bagaglio esistenziale finisca sulle spalle di Margherita, la protagonista, e di Margherita, l’attrice.
Seppur abituati a inquadrare Margherita Buy in ruoli dalla fragile e nevrotica struttura, replicandoli forse troppo spesso – e non sempre per colpa sua – è innegabile affermare quanto il talento stratificato e sfaccettato dell’attrice romana sia perfetto per trasporre i dubbi e le incertezze di un personaggio costretto ad affrontare la fine del percorso esistenziale della madre Ada, interpretata dalla raffinata e meravigliosa Giulia Lazzarini, trovando conforto nella cruda razionalità depressa del fratello Giovanni, quel Nanni che così facendo rimane un punto di riferimento importante per lo spettatore e che, grazie al magnetismo che lo caratterizza, riesce ad attrarre comunque una buona fetta d’attenzione su di sé, inevitabilmente.
Dal dolore della scomparsa della propria madre, avvenuta durante la lavorazione di Habemus Papam, Moretti trae la forza per dare vita a un progetto che non assume mai i contorni di uno scontato omaggio al caro defunto, ma diventa sofferta antologia sulle difficoltà dei rapporti e delle relazioni con le persone a noi più vicine. Moretti non ama teorizzare sui propri film, ma piace pensare che non sia un caso che il lavoro di Margherita riguardi il legame con il pubblico. Il regista come naturale evoluzione del cantastorie nel mondo. Margherita pensa di saper comunicare con le persone, che siano i suoi attori o che sia il pubblico e la stampa, attraverso il cinema, salvo poi riconoscere come nemmeno lei, in fondo, comprenda il significato reale delle sue parole, come quelle confuse indicazioni brechtiane sullo straniamento dell’attore rispetto al personaggio, al suo bisogno di stargli accanto, per poter far emergere la persona, al di là dell’interprete.
Ed è singolare che proprio questa forma di vicinanza all’altro e questa prolungata crisi identitaria di Margherita portino la protagonista a un’ideale e commovente rincorsa verso un rapporto materno che, nonostante sia ancorato al letto di un ospedale, è inesorabilmente e fatalmente lontano, lasciando nel mezzo una sensazione di vuoto disadattato, che Margherita non si è mai sentita in grado di riempire. Lo specchiarsi di Moretti in Margherita è sorgente di un dolore atroce, che ci pervade fino al termine del film, nelle contrapposizioni tra lavoro e privato, tra antico e moderno, tra verità e suggestione. Tra madre e figlia.
Attraverso inquadrature sincere e commoventi scopriamo lo strazio di una nipotina che comprende la fine di un legame e attraverso quelle stesse inquadrature Moretti non traccia alcuna linea di demarcazione tra sogno e realtà, evocando tratti felliniani con una scena che da sola vale il prezzo del biglietto, nella quale la protagonista cammina parallela a una lunga e infinita coda al cinema, rivivendo momenti cruciali e incrociando persone come il fratello Giovanni, che le chiede, seguendola, di ritrovare se stessa. Moretti, all’interno di questo contesto dà un’altra grande dimostrazione di lucidità artistica nell’affidare a un carismatico John Turturro il lato più istrionico e ingestibile del film, costruendogli attorno dei lampi di gradevolissima commedia e reale divertimento ma, al contempo, affidandogli attimi drammaturgici fondamentali e un grido viscerale concentrato nella battuta «Basta cinema, fatemi uscire dalla finzione, ridatemi la realtà!».
Perché, in fin dei conti, Mia madre commuove per l’onestà e la sincerità con cui racconta il reale senza retorica e facili pietismi, attraverso la scomparsa della signora Ada, che dolcemente ci accompagna verso un epilogo a cui non possiamo sottrarci.
Davide Sica