Un autostoppista che vive ascoltando le storie di chi gli dà un passaggio, un viandante dal cuore infranto che viaggia senza meta da una città all’altra, una vecchia star del cinema caduta in disgrazia, uno stuntman in declino che nonostante tutto augura di viversela al massimo senza preoccuparsi delle eventuali cadute, uno sconfitto dalla vita il cui unico obiettivo è aspettare la sua bella alla stazione di Tucson per dimostrarle di essere cambiato: sono questi alcuni dei personaggi che popolano le canzoni di Western Stars, il nuovo e strepitoso album di Bruce Springsteen.
Un album totalmente diverso da quanto fatto dal Boss in oltre 45 anni di onorata carriera, un album innanzi tutto suonato e registrato senza l’apporto della sua storica E Street Band, bensì da altri musicisti sotto la supervisione e la produzione di Ron Aniello. Un album fortemente cinematografico nel quale Springsteen si è volutamente ispirato e rifatto a un certo pop tipico della west coast americana in voga tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, andando come a recuperare e suonare di suo pugno tutta quella musica ascoltata e incamerata da ragazzino. Si potrebbe azzardare a definirlo un ritorno alle origini musicali, un salto indietro nel tempo per riassaporare i suoni e le melodie tipiche di artisti come Roy Orbison (sì, proprio quello che cantava per i solitari in Thunder Road!), Glenn Campbell, Jimmy Webb e altri ancora che hanno segnato l’adolescenza di Springsteen. Eppure il rocker del New Jersey in Western Stars ha preso a piene mani da quel mondo musicale per plasmarlo a suo piacimento su nuove storie e nuove canzoni – scritte nell’arco degli ultimi anni – che avevano l’urgenza di essere cantate e rivestite del loro abito migliore. Storie di gente che ha passato la vita a inseguire il proprio sogno senza mai raggiungerlo, correndo sempre al limite di quell’Ovest (interiore ed esteriore) che da Frederick Jackson Turner in avanti in America rappresenta il confine verso cui guardare e dirigersi quando si parla di “mito della frontiera”.
E così ecco i grandi spazi aperti, le praterie e i deserti, le vecchie strade polverose della provincia e i treni che scandiscono i ritmi della vita di gente che ha camminato a lungo per le strade di un’America che mai come oggi sembra aver smarrito il concetto di “American dream”, gente che ha speso tutta la vita a rincorrere qualcosa che non è riuscita ad afferrare: ma come in ogni disco di Springsteen che si rispetti, ad ogni caduta corrisponde sempre una possibilità di redenzione, un ribaltamento di prospettiva che trasforma l’eroe perdente in una persona che non si arrende ai colpi bassi del destino. E proprio il fallimento, il non raggiungimento dei propri sogni fa capire a questi personaggi quello che veramente avrebbero voluto dalla vita e li rimette ancora una volta in carreggiata per proseguire il proprio cammino.
Nonostante sia stato definito un lavoro solista dallo stesso Bruce, Western stars non è assolutamente un disco acustico come lo sono stati negli anni Nebraska, The ghost of Tom Joad o Devils and dust; non è nemmeno un disco country-folk come le Seeger sessions o una radiografia dell’anima come Tunnel of love né tanto meno si avvicina (per fortuna) ai suoni di Human touch o Lucky town, non a caso gli unici dischi elettrici in cui il Boss non è stato supportato dalla sua fidata E Street Band. No, Western Stars è un’altra cosa: ad oggi risulta essere un unicum nella produzione springsteeniana, che raccoglie i semi musicali già accennati qua e là in brani come Girls in their summer clothes o alcuni episodi del debole Working on a dream (This life, Queen of the supermarket, Kingdom of days), qui suonati e prodotti molto meglio.
Springsteen si fa storyteller come solo i migliori cantori sanno fare – e in questo ruolo sappiamo che è il migliore in circolazione – dando voce e forma a storie di nuovi eroi schiavi del proprio fallimento, rassegnati al passare del tempo e all’incompiutezza dei loro sogni, sconfitti dalla vita ma nonostante questo mai domi, e comunque pronti a pagare il prezzo delle proprie scelte per ripartire verso la famosa promised land e il riscatto che spetta a tutti quei loosers che si lasciano alle spalle la propria città di perdenti. Di fatto i protagonisti che popolano i solchi del nuovo album di Bruce Springsteen non sono altro che la proiezione dei vari Joe, Mary, Wendy o Terry che da più di quarant’anni viaggiano per le american highways a bordo di used cars alla ricerca dei loro glory days e tutto il bagaglio che il loro autore gli ha caricato sulle spalle in questi anni: le loro vite scorrono sempre sul sottile crinale che divide sconfitta e redenzione, un confine tanto caro a Springsteen che questa volta, in Western Stars, ha trovato un nuovo equilibrio narrativo e musicale.
Western Stars – Track by Track
Il nuovo capitolo della sterminata narrazione springsteeniana dell’America inizia a bruciapelo con la storia dell’autostoppista di Hitch hikin’, un uomo a cui non servono le mappe perché viaggia inseguendo il meteo e il vento (“I’m just travelin’ up the road, maps don’t much for me friend, I follow the weather and the wind”), un uomo a cui Bruce presta la propria voce dapprima sulle note di una chitarra acustica e poi, man mano che il pezzo procede, sulla forza degli archi che entrano a dar manforte al racconto: “I’m a hitch hikin’ all day long, got what I can carry and my song, I’m a rolling stone just rollin’ on, catch me now ‘cause tomorrow I’m gone…”.
Archi e chitarre sono alla base anche della successiva The wayfarer, storia di un viandante solitario che a causa di una delusione d’amore (“Same sad story, love and glory goin’ ‘round and ‘round”) si muove di notte mentre gli altri dormono, senza mai fermarsi, da una città all’altra degli States (“I’m a wayfarer baby, I drift from town to town, when everyone’s asleep and the midnight bells sound my wheels are hissin’ up the highway, spinning ‘round and ‘round… where are you now?”).
Tucson train, pubblicata come terzo singolo anticipatore del disco, è musicalmente il pezzo che più si avvicina alla tipica canzone che ci si aspetterebbe da Springsteen, perfetta anche in un’eventuale rilettura full band. Il brano narra la vicenda di un disperato che dopo aver perso il lavoro (“I got so down and out in Frisco”) e aver fatto i bagagli in cerca di una nuova opportunità (“I picked up, headed for the sunshine”) lasciandosi alle spalle anche gli affetti più cari (“I left a good thing behind”), è consapevole che nonostante abbia combattuto tutta la vita senza ottenere molto (“We fought hard over nothing, we fought till nothing remained”), alla fine è riuscito a riscattarsi grazie a un nuovo lavoro (“Now I carry my operator’s license and spend my days just running this crane…” e quindi non fa altro che aspettare la sua amata alla stazione ferroviaria di Tucson per dimostrarle che un uomo, per quanto la vita possa mettergli i bastoni fra le ruote, sa comunque rialzarsi e diventare una persona migliore: “I’m waitin’ down at the station just prayin’ to the five-fifteen, I’ll wait all God’s creation just to show her a man can change, now my baby’s coming in on the Tucson train… here she comes…”.
Si vola ancora a livelli altissimi per composizione e arrangiamenti nella title-track Western Stars, un brano quasi morriconiano per struttura e potenza degli archi che dettano i tempi del racconto, con uno Springsteen perfetto a livello vocale. Un vecchio attore caduto in disgrazia – orgoglioso però di svegliarsi ancora ogni mattina con i suoi stivali ai piedi e non al cimitero (“I wake up in the morning, just glad my boots are on”) – ricorda alcuni episodi della sua vita professionale in contrapposizione alla malinconia del presente (“Hell, these days there ain’t no more, now there’s just again”), compresa quella volta a fine carriera in cui John Wayne gli ha sparato un colpo (“Once I was shot by John Wayne, it was towards the end”), traendo ogni volta quella stessa morale che spazza via ogni delusione possibile: “Tonight the western stars are shining bright again…”.
Di tutt’altro tenore la successiva Sleepy Joe’s Cafè, brano musicalmente più leggero e pieno di fisarmonica e banjo, ma comunque funzionale alla logica del racconto che sta facendo Springsteen: il Cafè di Joe è quel luogo dove al venerdì sera ogni lavoratore (“The truckers and the bikers gather”) può prendersi una pausa e accantonare per un momento tutte le fatiche e le delusioni quotidiane, ascoltando della buona musica e bevendosi una birra nell’illusione che il lunedì mattina sia ancora lontano un milione di miglia: “I come through the door and feel the workweek slip away, see ou out on the floor and Monday morning’s a milion miles away…”.
Passata l’allegria del fine settimana, ecco comparire un altro protagonista a cui la vita ha dato e preso tutto troppo in fretta: è il caso di Drive fast (The stuntman), in cui si canta la storia di un uomo che faceva le comparse in film di basso livello (“We met on the set of this B picture thaht she made”), che si è giocato la vita tra droghe, amori incontrati sul set e corse in auto (“I liked the pedal and I didn’t mind the wall… I was looking for anything, any kind of drug”) e adesso si ritrova con un pezzo di ferro nella gamba che però malgrado tutto lo riporta ancora a casa (“I got two pins in my ankle… a steel rod in my leg, but it walks me home”). Nonostante il metaforico aver guidato sempre veloce ed esser caduto altrettanto malamente, il protagonista afferma con uno slancio di rinnovata fiducia di non preoccuparsi del futuro che arriva e incita gli ascoltatori a vivere al massimo senza curarsi delle cicatrici o delle sconfitte: “Drive fast, fall hard, keep me in your heart, don’t worry about tomorrow, don’t mind the scars, just drive fast, fall hard…”.
Chasin’ wild horses e la seguente Sundown sono senza dubbio i due brani in cui emerge maggiormente il lavoro di orchestrazione costruito attorno alle canzoni di questo nuovo album: nella prima il protagonista ha inseguito per tutta la vita dei sogni mai concretizzati, qui rappresentati da metaforici cavalli selvaggi – fossero essi un nuovo lavoro in Montana (“I contract out to the BLM up on the Montana Line”), una casa da lasciare e degli amici da salutare (“Left my home, left my friends, I didn’t say goodbye”) o un amore di cui resta solo un’eco nel canyon (“You come rollin’ cross my mind, your hair flashin’ in the blue like wild horses… I shout your name into the canyon, the echo throws it back”) – salvo poi pentirsene quando era troppo tardi (“Guess it was somethin’ I shouldn’t have done, guess I regret it now… tryin’ to keep my temper down is like chasin’ wild horses…”).
In Sundown invece troviamo un uomo che racconta quanto la lontananza dalla persona amata generi un profondo senso di malinconia (“I’m twenty-five hundred miles from where I wanna be… just wishing you were here with me, come sundown”), come un tramonto visto da soli in una città che guarda caso si chiama Sundown e nella quale nessuno vorrebbe starsene da solo (“Sundown ain’t the kind of place you want to be on your own”). In un posto dove tutto ciò che ha sono solo i suoi problemi (“In Sundown all I’ve got’s trouble on my mind”), le uniche cose che non lo fanno sprofondare sono la voce e il ricordo della sua amata che lo raggiungerà in estate (“When the summer’s through, you’ll come around, that little voice in my head’s all that keeps me from sinking down, come Sundown…”.
Molto più minimale e acustica risulta Somewhere North of Nashville, una canzone che pone l’accento sull’eterno dilemma del prezzo da pagare in cambio del successo. Nel brano si racconta la vicenda di un cantante folk con un solo grande successo in carriera (“Came into town with a pocketful of songs, I made around but I didn’t last long”) che però gli ha fatto però perdere l’amore della sua vita (“Makin’ a list of things that I didn’t do right with you at the top of a long page filled”): la disillusione del protagonista legata al prezzo troppo alto che ha dovuto pagare per un effimero successo è tutta all’inizio dell’ultima strofa, quando afferma “For the deal I made, the price was strong, I traded you for this song… now the heart’s unsteady and the night is still and all I’ve got’s this melody and time to kill…”.
Tra gli eterni sconfitti dalla vita c’è anche ci ha vissuto circondato da bugie e falsità e che adesso si sveglia ogni giorno con la sensazione di avere la bocca sempre piena di pietre troppo pensanti da sputare via (“I woke up this morning with stones in my mouth”): Stones è una lenta e triste ballata in cui il protagonista in varie situazioni – seduto sul bordo del letto, in un campo invernale o lungo un’autostrada assolata – non riesce mai a scrollarsi di dosso quella sensazione di pesantezza dovuta alle pietre che sente in bocca, ovvero alle bugie che qualcuno gli ha raccontato per una vita intera (“Those are only the lies you’ve told me…”).
In questo ennesimo cantico dedicato agli eroi marginali della nostra quotidianità – una sorta di Spoon River popolata da gente che ha rincorso per anni dei sogni che si sono trasformati soltanto in vuote illusioni e rare occasioni di riscatto – non poteva mancare la classica love-song finita male, nonostante l’andamento arioso dell’arrangiamento musicale: in There goes my miracle la fine di una storia d’amore coincide con la fine del miracolo a cui si accenna nel titolo (“Sunrise, sundown, I’m searching for my love… Moonlight, moonrise, where’s my lucky star tonight… There goes my miracle, walking away, walking away…”). Laconico e sconsolato il finale a cui si lascia andare il protagonista, quando ammette che l’amore prende e l’amore dà poiché gli sciocchi disattendono le sue regole: “Heartache, heartbreak, love gives, love takes, the book of love holds its rules disobeyed by fools…”.
Messa quasi al termine dell’album ma lanciata come singolo apripista di tutto il lavoro, ecco Hello Sunshine, uno dei brani forse più significativi e rappresentativi dell’intero Western Stars. Interpretabile come una confessione autobiografica di Springsteen che alla soglia dei 70 anni fa il punto sugli alti e bassi della sua esistenza ma anche in mille altri modi diversi, la canzone – lenta e riflessiva, sostenuta da un pattern di batteria che ricorda l’andamento di un treno verso l’orizzonte – è il ritratto di un uomo che nella vita ha avuto abbastanza dolore e sofferenza (“Had enough of heartbreak and pain”), ha camminato per anni affezionandosi alla propria malinconia (“You know I always liked my walking shoes, but you can get a little too fond of the blues”) e più è andato lontano più si è allontanato (“You walk too far, you walk away”), un uomo che ha sempre amato le città solitarie, le strade vuote e la poca gente attorno (“You know I always loved a lonely town, those empty streets, no one around”), ma che adesso, consapevole di essere entrato nell’ultima fase della sua vita, si è accorto che a innamorarsi della solitudine si finisce con l’essere davvero troppo soli (“You fall in love with lonely, you end up that way”) e che nuove miglia da percorrere significano ulteriori miglia di lontananza (“But miles to go is miles away”. Di fronte a tanta amarezza il protagonista – e qui sta la grandezza della canzone, oltre che di Springsteen in generale – non si abbatte né si lascia andare, ma al contrario invoca l’unico raggio di sole che vede a fargli ancora compagnia, chiudendo ogni singola strofa col lento incedere di quel “Hello sunshine, won’t you stay?” che rappresenta il messaggio di ottimismo e di speranza tipico di chi ha capito che, nonostante tutte le batoste che la vita sa riservarci, esiste sempre e per tutti una possibilità di redenzione e di riscatto.
Le note conclusive di tutto il lavoro spettano a Moonlight Motel, un’altra carrellata di immagini e situazioni piene di desolazione e decadenza, perfette per legarsi alle atmosferiche acustiche di Hello sunshine e chiudere il cerchio iniziato con l’autostoppista di Hitch hikin’: sull’arpeggio di ripetuto di una chitarra acustica, Springsteen tratteggia un altro luogo abbandonato e desolato (“A sleepy corner room into the musty smell, of wilted flowers and lazy afternoon hours”), posizionato lungo un tratto di strada dove nessuno viaggia e nessuno va (“There’s a place on a blank strench of road where nobody travels and nobody goes”), che è stato teatro di una vecchia storia d’amore ormai impolverata e relegata alla memoria dei ricordi (“Your lipstick taste and your whispered secret I promised I’d never tell…”). Una notte il protagonista sogna la sua amante (“Last night I dreamed of you, my lover”) e si sveglia con in testa una sua frase (“I woke to something you said, that it’s better to have loved”), ma subito lo assale la consapevolezza che di quell’amore fugace come una canzone estiva (“She was boarded up and gone like an old summer song”) resta solo il ricordo imprigionato fra le mura decadenti del Moonlight Motel: e così non resta altro che versare un goccio di Jack per entrambi (“I pulled a bottle of Jack out of a paper bag, poured one for me and one for you as well”) e lasciarsi andare alla malinconia del tempo passato, mentre le note conclusive fanno calare il sipario sull’album e su tutte le “stelle dell’ovest” cantate da Springsteen che in un modo o nell’altro troveranno il modo di brillare nuovamente.
Western Stars – Conclusione
Western Stars è un disco fuori dal tempo, o meglio: un disco al centro dell’unico tempo che Bruce Springsteen conosce, ovvero quello di un uomo che dopo l’autobiografia Born to run e la parentesi minimale degli show teatrali testimoniati dal doppio live Springsteen on Broadway ha finalmente fatto i conti con sé stesso e con alcuni demoni del suo passato. Western Stars è il disco di un artista che arrivato alla soglia dei 70 anni non deve dimostrare niente a nessuno, che è cosciente del tempo che passa ineluttabilmente per tutti e che si è concesso il lusso di fare un album al tempo stesso antico e moderno, melodico ma sempre al passo coi tempi, ricco di orchestrazioni, violini, banjo, chitarre slide e acustiche a supportare una voce che come il vino migliora con il passare del tempo, ma soprattutto con canzoni scritte e arrangiate divinamente, segno che l’ispirazione e la creatività viaggiano ancora a livelli altissimi.
Accreditato come disco solista, Western Stars non raggiunge le vette inarrivabili di Nebraska né il minimalismo acustico di The ghost of Tom Joad e neppure si avvicina ai suoni e alle tematiche di Devils and dust: quest’album è davvero qualcosa che Springsteen non aveva ancora fatto e proprio per questo riesce a spiazzare e a sorprendere positivamente, perché suona completamente “diverso” dai lavori ai quali il Boss ci ha abituato in tutti questi anni. Difficile dire se questo disco segnerà l’ennesimo nuovo capitolo di una carriera ormai leggendaria e strepitosa; certo è che se la voglia di scrivere e suonare è quella dimostrata in questo lavoro, per Bruce Springsteen il sole sorgerà ancora per numerosi mattini a venire, siano essi in chiave acustica, pop, orchestrale o ancora una volta – come dicono i ben informati – insieme ai compagni di sempre della E Street Band per incendiare le arene e gli stadi di tutto il mondo la prossima estate: Hello sunshine, won’t you stay?
Matteo Manente
Photos @ fanpage Bruce Springsteen