Asbury sound in gran spolvero: in attesa delle prossime mosse del Boss Bruce Springsteen, è uscito a fine maggio il nuovo disco di Little Steven, al secolo Steven Van Zandt, chitarrista e braccio destro proprio di Springsteen, nonché collaboratore strettissimo dell’altro esponente di punta del soul-rock in salsa Jersey Shore, ovvero Southside Johnny & The Asbury Jukes.
Soulfire, questo il titolo del primo disco solista dopo vent’anni di silenzio di Van Zandt, racchiude tutto il meglio di quanto scritto o prodotto negli anni dal chitarrista e attore italo-americano; fra cover di brani già interpretati da altri artisti (The blues is my buisness e Down and out in New York City), vecchi pezzi scritti per Gary U.S. Bonds (Standing in the line of fire) ma soprattutto per l’amico Southside Johnny (I’m coming back, Some things just don’t change, Love on the wrong side of town, I don’t want to go home e Ride the night away), Little Steven inserisce anche qualche altro pezzo scritto di proprio pugno (Soulfire, I saw the light, The city weeps tonight e la rockeggiante Saint Valentine’s day), mettendo in chiaro fin da subito tutta la sua voglia di suonare e far musica nonostante gli anni che passano: fiati in primissimo piano, chitarra sempre ben affilata e una voce roca quanto basta sono gli ingredienti alla base delle dodici tracce che compongono il nuovissimo Soulfire.
Quanto al sound del disco, dimenticate Sun City, Bitter fruit e tutti quei pezzi cantati dal Little Steven più barricadero di metà anni ‘80: Soulfire è molto più potente e va a pescare nei territori da sempre amati dal Van Zandt produttore e chitarrista della E Street Band: soul, rock e blues sono le inevitabili fondamenta musicali per questo lavoro, che nel complesso risulta freschissimo e altrettanto godibilissimo. Un concentrato di forza, passione e competenza che al chitarrista e consigliere tra i più fidati di Springsteen certo non sono mai mancati: Steve da sempre ama le sezioni di fiati – suoi, infatti, gli interventi provvidenziali sulla storica Tenth avenue freeze-out del Boss o in molti altri arrangiamenti curati nel periodo Darkness on the edge of town e The River – tanto che in Soulfire, grazie soprattutto all’apporto dei Disciples of Soul, ne fa un uso più che abbondante. Il risultato è un impatto sonoro di livello che non stanca mai, grazie al quale Van Zandt attua una sorta di tributo alla musica soul-rock degli anni ‘60 e ‘70 e più in generale a tutti quei generi che da sempre ha prediletto e ascoltato indistintamente nel corso dei decenni.
Tra i pezzi incisi e riarrangiati per l’occasione da Little Steven e i suoi Disciples of Soul, spiccano per efficacia e freschezza almeno 6 o 7 brani al di sopra della media che era lecito aspettarsi da un lavoro come questo: la titletrack Soulfire mette in chiaro fin da subito le intenzioni di Van Zandt e le atmosfere sonore di tutto l’album; le storiche I’m coming back e I don’t want to go home sono due cavalli di battaglia di Southside Johnny che non stancano mai, così come le molto più springsteeniane I saw the light e Love on the wrong side of town, scritta a quattro mani proprio con Springsteen nel 1977 e poi ceduta all’amico Southside Johnny per il suo secondo disco. Di pregevole fattura anche la morriconiana Standing on the line of fire – scritta insieme a Gary U.S. Bonds e da questo incisa nell’omonimo album del 1984 – e la cinematografica Down and out in New York City, già eseguita da James Brown; nell’economica generale dell’album non sfigurano nemmeno i due lenti del disco, The city weeps tonight e Some things just don’t change, ballata dal tipico impianto springsteenniano alla Heart fo stone e registrata da Southside Johnny & The Asbury Jukes a fine anni ‘70. Il blues è inequivocabilmente alla base di The blues is my buisness già interpretata da Etta James nel 2003, mentre il rock più chitarristico e muscoloso torna a far capolino nelle tracce che chiudono l’album: Saint Valentine’s day è stata scritta da Van Zandt e ceduta alla band norvegese The Cocktail Slippers’ nel 2009, mentre Ride the night away – dal cui intro di batteria, organo e chitarre graffianti sarebbe lecito aspettarsi l’ingresso della voce di Springsteen da un momento all’altro – è stata incisa sempre da Southside Johnny nel 1991.
Insomma, tra fiati, chitarre, canzoni altrui e brani scritti nel corso degli anni per altri artisti, con Soulfire Little Steven ha stupito ancora una volta, incidendo un album che diverte chi lo ascolta ma anche chi lo suona: il ritmo è sempre serrato, la qualità dei suoni e degli arrangiamenti è eccelsa, così come il livello delle canzoni selezionate e messe in scaletta per l’occasione, in un tripudio di suoni dove la forza del soul e l’energia del rock creano una miscela esplosiva. D’altra parte non si diventa il braccio destro di Bruce Springsteen così per caso: bentornato a casa, Little Steven Van Zandt!
Matteo Manente