ROGER WATERS, PIACEVOLMENTE SENSIBILE (E POLITICO)
Trionfo per l’ex Pink Floyd nella quarta e ultima tappa milanese del suo tour
“Se siete di quelli che ‘amo i Pink Floyd, ma non sopporto la politica di Roger’, fareste bene ad andarvene immediatamente a fanculo al bar…”. Roger Waters è così, prendere o lasciare, e lo ha confermato anche in apertura della quarta e ultima data milanese del suo tour mondiale andata in scena il 1 aprile al Forum di Assago; l’ex bassista dei Pink Floyd è sempre stato diretto e frontale nel dire ciò che pensa e non ha fatto eccezione in questa tappa del suo This is not a drill Tour, con un messaggio andato in onda prima dell’inizio dello spettacolo nel quale invitava i presenti a non scindere mai la propria musica (e quella dei Pink Floyd) rispetto alle idee e ai concetti (anche politici) di chi buona parte di quella musica e di quelle parole le ha pensate e composte.
E di concetti espressi nelle quasi due ore e mezzo di spettacolo – giocato su straordinari effetti scenici e strutturato per blocchi tematici di canzoni estratte dai principali capolavori floydiani quali The dark side of the moon, Wish you were here, Animals, The Wall e The final cut, oltre che dai lavori solisti di Waters – ce ne sono stati davvero tanti, a cominciare dall’eterea e spettrale versione rivisitata di Comfortably numb: niente assoli laceranti di chitarra, ma atmosfere rarefatte, cupe oltre ogni modo che ben si addicono ai tempi grigi e nefasti che stiamo attraversando e che nulla tolgono alla potenza intrinseca di questo brano. Alla poco rincuorante e per nulla liberatoria Comfortably numb, sono seguite altre canzoni tratte sempre dall’iconico The Wall (1979): le sirene e le urla di The happiest days of our lives hanno introdotto come sempre Another brick in the wall, part 2 e Another brick in the wall, part 3. Inutile dire qualcosa in più rispetto a questi brani, sono pezzi di storia della musica del Novecento, opere d’arte che come tali manifestano tanto oggi quanto ieri la loro urgenza e attualità: l’urlo “Teacher, leave them kids alone” racchiude ancora intatto tutto quel senso di ribellione all’ingiustizia, al sopruso e all’abuso di potere da parte di qualsivoglia autorità che si dimostra sempre più condivisibile e necessario. Il primo Roger Waters solista di Radio K.A.O.S. (1987) è rappresentato dall’arrembante The powers that be, mentre quello del capolavoro Amused to death (1992) compare nella successiva e strepitosa versione di The bravery of being out of range: su un tappeto di Hammond e con Waters seduto al pianoforte, il nuovo arrangiamento dona freschezza a uno dei testi da sempre più politici e contrari alla guerra mai scritti dal bassista inglese, che non a caso proietta sui maxischermi le facce e i nomi dei vari presidenti americani (da Regan a Trump passando per Bush, Obama e Biden) definendoli “criminali di guerra”. Quindi è la volta del primo e unico inedito della serata, composto appositamente per questo tour durante il lockdown: The bar è una canzone riflessiva e delicata, nella quale dal suo pianoforte Waters invita tutti i presenti ad andare a questo ipotetico bar, inteso come luogo di ritrovo non solo per bere un bicchiere, ma dove confrontarsi e scambiarsi opinioni. Scroscio di applausi per la nuova composizione ed è subito la volta del secondo blocco di brani tematici, questa volta estratti dal mitico Wish you were here (1975): Have a cigar, ma soprattutto Wish you were here intonata da tutto il Forum e la stratosferica Shine on you crazy diamond (part VI-VII, V) offrono lo spunto per ricordare – tramite anche tanti effetti video lanciati sui maxischermi a croce sopra il palco – la figura del “diamante pazzo” Syd Barret, amico d’infanzia di Waters nonché anima fragile dei Pink Floyd di fine anni ‘60. La commozione è palpabile in tutto il palazzetto, ma bastano pochi secondi per capire che sta per arrivare un altro momento topico della serata: il belato di Waters e la comparsa sugli schermi di tante pecore sono il preludio all’entrata in scena di una pecora gigante, nuovo gonfiabile creato appositamente per accompagnare le note della poderosa Sheep, unico estratto dal classico senza tempo che risponde al nome di Animals (1977). Esecuzione stellare da parte della band sul palco per un altro brano che sembra più attuale oggi rispetto a quando venne inciso dai Pink Floyd oltre quarant’anni fa e che di fatto conclude la prima parte del concerto.
Breva pausa e la calma apparente viene squarciata da suoni di elicotteri e spari: il rombo assordante di In the flesh e la potenza sonora della successiva Run like hell fanno indossare nuovamente a Waters i panni del feroce dittatore di The Wall, con tanto di impermeabile e occhiali neri, martelli incrociati e drappi rossi a cornice del palco, mentre sulle teste del pubblico torna a volteggiare lo storico maialino Algie. Dall’ultimo album d’inediti – Is this the life we really want? (2017) – provengono le successive Déjà vu (cantata indossando un kefiah a sostegno del popolo palestinese), Déjà vu (reprise) e la title-track Is this the life we really want; tuttavia la parte predominante del secondo tempo del concerto è occupata dall’intera seconda facciata dell’iconico The dark side of the moon (1973), fresco fresco di cinquantesimo anniversario appena festeggiato: in sequenza una dopo l’altra vengono infatti suonate Money, Us and them, Any colour you like, Brian damage ed Eclipse. L’effetto è strabordante, fra tintinnii di monete, prismi che punteggiano il palco, luci laser colorate e componenti visual che da sole valgono il prezzo del biglietto. Waters e la band fanno emozionare come pochi altri tutti i presenti, che giustamente e meritatamente tributano al genio del musicista inglese e ai suoi musicisti un applauso fragoroso e convinto. Si potrebbe concludere così e nessuno avrebbe nulla da dire, ma per Roger c’è ancora tempo per un paio di brani tutt’altro che casuali; lo show si avvia verso la conclusione allo stesso modo di come era iniziato, ovvero con l’apocalittica e fin troppo attuale Two suns in the sunset, ripescata dallo spesso (e ingiustamente) bistrattato The final cut (1983) e introdotta da Waters con un lungo discorso sul rischio di una minaccia concreta di estinzione per la razza umana se i leader mondiali non si siedono presto a un tavolo di pace. Una ripresa dell’inedita The bar con alcune strofe aggiunte di recente conduce all’ultimissimo brano in scaletta, ovvero Outside the wall, che come l’iniziale Comfortably numb proviene dal doppio The Wall e che la band conclude di suonare mentre si avvia verso i camerini del Forum: è la chiusura perfetta del cerchio, il completamento di un percorso iniziato un paio d’ore prima sulle note eteree e i sussurri di un “Hello, is there anybody in there?” che qui trova la sua risposta definitiva, nel momento in cui Waters canta “All alone or in twos, the ones who really love you walk up and down outside the wall…”.
Le luci si accendono e come succede per i sogni più intensi, si infrange l’incantesimo di trovarsi in un tempo sospeso – quello del concerto appena trascorso – dentro al quale sembrava ancora possibile trovare (o illudersi di trovare) qualche appiglio per resistere alla barbarie e al decadimento contemporaneo. Se cinque anni fa, durante l’ultima tournée, la risposta alla domanda dell’allora nuovo disco Is this the life we really want? era stato il messaggio corale, umano e insieme politico del tour di Us+Them, questa volta Waters propone una soluzione ancora più estrema, diretta e volutamente politica: per resistere a una classe pessima dirigente che ci sta uccidendo in svariate maniere, serve incazzarsi e prendere sempre più posizione, rispolverando e affidandosi pure a quelle canzoni, a quei dischi e ai conseguenti valori sui quali abbiamo sempre contato e fatto riferimento. Ormai “il bambino è cresciuto, il sogno è svanito” e, come dice il titolo del tour, “questa non è più un’esercitazione”: adesso si tratta di resistere e sopravvivere nel “lato oscuro della luna”, ma soprattutto di impegnarsi, mattone dopo mattone, affinché ritornino al più presto “i giorni più felici della nostra vita”… shine on e grazie di tutto, Roger!
Matteo Manente
Foto @ Matteo Manente