Pur con tutto il bene che si può volere a Bruce Springsteen, il suo nuovo Only the strong survive è un disco da prendere con le pinze: a meno di non essere patiti di musica soul, il nuovo album del Boss – decisamente lontano dal suo classico sound rock – può risultare di non facile presa né di immediata assimilazione, visto che contiene ben quindici cover di altrettanti brani soul incisi a cavallo tra gli anni Sessanta e Ottanta.
Certo, la classe di Springsteen è fuori discussione, così come il suo amore dichiarato per la musica soul, da sempre ascoltata e spesso riprodotta tanto dal vivo quanto in sala d’incisione; è quindi più che comprensibile un tributo da parte sua verso alcuni brani cruciali della propria formazione giovanile, ma alla lunga quindici pezzi son tanti e l’ascolto dell’album – specie le prime volte – può risultare un po’ stucchevole e persino pesante. Tanto per fare un paragone, ben altro livello e coinvolgimento aveva scatenato il precedente tributo alla musica folk di Pete Seeger messo in campo dal Boss nel 2006: le Seeger Sessions son rimaste un capitolo altissimo della sua lunga discografia, con canzoni che ancora oggi, a distanza di più di quindici anni, risultano fresche, ispirate e godibilissime. Altrettanto non so se si possa dire per il recente Only the strong survive, se non che l’amore di Bruce per questa musica è palese e la voglia di rendergli omaggio è più che comprensibile; è altrettanto vero che Springsteen non riesce a far male una cosa neanche quando lo vorrebbe, quindi il disco risulta in ogni caso un prodotto di grandissima qualità, registrato magistralmente con l’aiuto e l’apporto del solo Ron Aniello nella parte di produttore e musicista di quasi tutti gli strumenti utilizzati.
Sta di fatto che prima di imbarcarsi per il nuovo (e ultimo?) grande tour mondiale con la fidata E Street Band – che toccherà l’Italia con tre date a Ferrara, Roma e Monza fra maggio e luglio – Bruce Springsteen ha scelto di pubblicare questa raccolta di brani classici del soul americano incisi fra la metà degli anni ’60 e quella degli anni ’80: un disco poco inquadrabile, con alcuni episodi di gran lunga notevoli (Nightshift, Soul days, I wish it would rain, Don’t play that song, Hey western union man), alcuni godibili ma comunque senza generare troppa enfasi (Do I love you, The sun ain’t gonna shine anymore, What becomes of the brokenhearted, Someday we’ll be together, Seven rooms of gloom) e altri che lasciano al contrario indifferenti e appesantiscono un poco l’ascolto complessivo del lavoro (Only the strong survive, Turn back the hands of time, When she was my girl, Any other way, I forgot to be your lover).
Ciò che emerge maggiormente dall’ascolto di Only the strong survive è senza dubbio la condizione vocale di Springsteen: con quasi 74 primavere sulle spalle, la sua voce sembra sempre in costante miglioramento, come il miglior vino che si possa assaggiare; il Boss è evidentemente a suo agio nei panni di cantante soul, felice di interpretare tanti di quei 45 giri da due o tre minuti che da giovane sentiva nei bar del Jersey o che gli è capitato di suonare nelle migliaia di spettacoli tenuti ovunque nel mondo; per sua stessa ammissione, ha voluto fare un album in cui la sua unica preoccupazione fosse cantare, senza dedicarsi alla scrittura né agli arrangiamenti dei pezzi: il risultato è come sempre di altissimo livello, basta ascoltare brani come le già citate Nightshift, Sould days, I wish it would rain o Don’t play that song per rendersene subito conto.
Eppure a questo lavoro manca quel pizzico di magia che solitamente fa saltare dalla sedia l’ascoltatore medio di Bruce, quel quid in più che fa elevare un’ottima registrazione a rango di capolavoro. Senza scomodare i classici del passato – anche perché come già detto altre volte, se uno vuole riascoltare The River o Born to run basta prendere i dischi in questione e metterli sul piatto – ciò che manca al nuovo album di Springsteen è l’elemento di sorpresa, lo scossone che fa tremare il cuore, la carta che scompiglia il mazzo quando meno te lo aspetti, tutti elementi che invece si ritrovavano – tanto per fare un esempio – nel recente ed ultimo capolavoro Western stars, così come nel meno clamoroso ma comunque gradevole ed onesto Letter to you. Va bene che queste sono cover a dispetto degli originali nei casi sopracitati, ma in definitiva Only the strong survive non aggiunge nulla alla discografia cinquantennale di Springsteen: è solo un esercizio di stile o meglio uno sfizio, per quanto succulento e ben riuscito, voluto a piene mani dall’artista americano.
Naturalmente si tratta di un disco più che buono, intendiamoci: si fa ascoltare e dopo svariate volte rimane anche abbastanza in testa, ma niente di più: e per uno come Springsteen, che ci ha abituato a ben altri voli emozionali, forse è un compitino appena appena sufficiente. In fin dei conti però va bene così, il Boss è lui e non si discute, ma ora speriamo nel turbo di cui è capace e in un cambio di passo verso quel classic rock a stelle e strisce che sa infiammare i cuori, gli stadi e le arene di tutto il mondo: ti aspettiamo in Italia, Bruce!
Matteo Manente