Un disco da Nomadi. Un disco dei Nomadi. Non riesco a trovare frase migliore per riassumere il senso del trentesimo capitolo discografico della band più longeva d’Italia, sulle scene da ormai 52 anni, capace di rinnovarsi nonostante i numerosi cambi di formazione e sopravvissuta a ben due cantanti del livello di Augusto Daolio e Danilo Sacco.
Pubblicato lo scorso maggio, Lascia il segno era un po’ il vero banco di prova per i “nuovi” Nomadi – quelli guidati dalla voce di Cristiano Turato – dopo l’esordio con Terzo Tempo (2012) e il celebrativo 50+1 (2014). Alla luce delle nuove canzoni – 10 inediti composti per l’occasione – la formazione capitanata da Beppe Carletti appare in gran forma, ben amalgamata e in grado di sfornare un disco ricco di canzoni che funzionano, che vanno a toccare questioni di attualità come quella dei migranti (Io come te) o gli atteggiamenti di certi banchieri e politici senza scrupoli (Rubano le fate e Tutti quanti a credere); canzoni che allo stesso tempo arrivano dritte al cuore di quelle migliaia di fans che non desideravano altro che questo genere di brani.
Tra cose che funzionano e altre che convincono meno, Lascia il segno è un disco fresco, suonato molto bene e che si fa ascoltare senza troppa fatica: il merito va certamente all’attualità dei testi e degli argomenti affrontati, alla semplicità – che non scade mai in banalità! – con cui sono costruite le nuove canzoni, ma anche al sound ormai inconfondibile che da qualche tempo contraddistingue i Nomadi: forti di una sezione ritmica che non sbaglia un colpo (ottimo il lavoro di Daniele Campani alla batteria) e di una seconda voce – quella del bassista Massimo Vecchi – che cresce ogni anno di più e offre una spalla perfetta al vocalist Cristiano Turato, il gruppo esprime ormai un suono del tutto riconoscibile, arricchito come sempre dalle tastiere dell’inossidabile Beppe Carletti (in questo album presente come non mai), dalle chitarre di Cico Falzone e dal violino di Sergio Reggioli, purtroppo meno suonato rispetto ad altri dischi del gruppo.
Venendo alle canzoni, il disco si apre con il singolo Non c’è tempo da perdere: un brano nomade al 100%, con un testo che riflette le mille difficoltà del vivere odierno, fra talk show di ogni genere e giochi di mano sotto al tavolo: “Vedo la rabbia nelle città / il conto della storia arriva al tavolo… / Incantatori di serpenti / noi siamo le prede ma siamo pronti / a trasformare ogni bugia in verità / a raccogliere da terra la dignità / c’è quel vuoto da colmare / allora alzati e prova a sceglier… e non c’è tempo da perdere…”.
Io come te affronta invece il tema dei migranti e, più in generale, quello dell’integrazione e della dignità umana, che nel 2015 non sembra ancora essere un diritto acquisito per tutti, specie per quegli “uomini diversi a cui non è permesso stare in piedi”: “Io come te / non c’è colore, non c’è razza / due occhi, un cuore, stessa faccia… / Ogni vita ha la sua storia e chiede verità / ogni uomo nasce uomo e chiede dignità…”. Evidentemente, per certi gruppi particolarmente attenti a questi argomenti, quello dell’integrazione è un tema molto sentito: i Gang hanno scritto di recente un capolavoro che risponde al nome di Marenostro, i Nomadi hanno pubblicato Io come te…
Figli dell’oblio è forse una di quelle canzoni che, almeno in prima battuta, colpiscono di meno, nonostante affronti il delicato e annoso discorso della mancanza di nuovi cantautori e di nuovi artisti capaci di proseguire quel filone inaugurato dai vari Guccini, De Andrè, De Gregori… emblematico il verso “Ho creduto alle canzoni come credo in Dio”: a differenza degli anni ’60 e ’70, nell’epoca dei talent, del rap e dell’hip-hop a tutti i costi, manca come l’aria una nuova scena cantautorale degna di questo nome, tanto che i Nomadi arrivano a cantare che “nell’indifferenza muore già la mia poesia, cancellando quel ricordo…”.
Animante è al contrario uno di quei brani che forse non ci si aspetterebbe da un gruppo come i Nomadi, eppure funziona a meraviglia, tagliata appositamente sulla vocalità di Cristiano Turato: partendo dall’idea di raccontare la storia di un’intrattenitrice che lavora nei villaggi turistici, la canzone si allarga poi all’idea stessa dei musicisti visti come animanti, ovvero animatori di concerti e serate, capaci di regalare sorrisi ed emozioni a chi li va a sentire: “L’artista ignoto forse un po’ saccente / giullare a volte cinico ed assente, perché il mestiere suo / è regalarti un’ora di allegrezza… / Pronti, via… si alza il sipario e inizia una storia, fantasia… / Teatro di luci, sei stella che bruci così e poi… / L’amore che c’è in te parlerà del sogno di animante / e quando tu vedrai il sorriso che li porterà alla vita / allora crederai, ti giuro che è così…”.
Con la successiva Tutto vero si torna al rock ruspante e ottimista che tante volte ha fatto capolino nei solchi dei dischi dei Nomadi, con un verso che ben sintetizza il senso del brano: “Non c’è ritorno dalla notte senza il sole del mattino…”. La canzone è un inno alla speranza (“Apri le tue ali e tocca il cielo / vola con coraggio, è tutto vero…”), alla voglia di non arrendersi di fronte alla mediocrità e alla confusione generale (“A volte il bianco si tinge nero / a volte confondi il falso con il vero…”), un invito a vivere la propria vita con slancio e passione (“Vivi di forza e di passione / senza mai vendere il tuo nome / perché alla fine di ogni notte / c’è un nuovo giorno che si accende, è tutto vero…”). Musicalmente, spicca l’Hammond suonato da Beppe Carletti, che stende un eccellente tappeto sonoro su cui si innestano alla perfezione basso, batteria e chitarra, oltre alla voce graffiante del sempre più bravo Massimo Vecchi.
Rubano le fate è invece molto più cupa, una riflessione amara e disillusa sul come ormai i soliti noti – banchieri, politici e chi per loro – ci abbiano rubato pure i sogni, lasciandoci con le spalle al muro, incapaci e impossibilitati a reagire: “E tutto andò come doveva andare / chi con le penne d’oro a scriversi il futuro / e tutto andò perché doveva andare / chi con le spalle al muro, con le spalle al muro… / I responsabili però furono assolti / i furti erano sogni e non caviale…”. Una canzone più di amarezza che di rabbia vera e propria, nella quale brilla l’arrangiamento di chitarra firmato da Cico Falzone.
Al contrario, la title-track Lascia il segno appare più fiduciosa, quando afferma che si può essere qualcuno non in base alle ricchezze accumulate, ma a seconda del segno che si lascia nella vita degli altri: “ Nella strada c’è, nel cammino c’è un segno di te… / Lascia qualcosa negli altri che parli di te / grande è quell’uomo che lascia una traccia di se…”.
Chiamami è l’unico brano spiccatamente d’amore, una ballata dolce e un po’ malinconica, in cui attesa e speranza si rincorrono danzando sulle note iniziali di un pianoforte a cui seguono in progressione anche gli altri strumenti: “Aspetterò, come terra che aspetta la pioggia in siccità / come un sogno che aspetta di farsi realtà / quando il buio trafigge le luci e il silenzio sconfigge le voci, arriverà…”. Un brano che va a toccare le corde più sentimentali dell’ascoltatore, un’ottima prova per Cristiano Turato, indicativa di una potenziale nuova via musicale da intraprendere per tutto il gruppo… una via che può piacere o meno, ma dopo oltre 50 anni di carriera non è scontato trovare nuovi spunti musicali.
Con Tutti quanti a credere si torna alla canzone più squisitamente sociale e politica, con la descrizione neanche tanto velata di uno o più politici nostrani, espressione di un potere che, nonostante i proclami di rottamazione e rinnovamento, si ricicla sempre uguale a se stesso, con il solito messaggio basato sulla “menzogna di un miraggio”: “Sul viso aveva qualche ruga camuffata / ma l’eleganza nel truffare era immutata / fra le bugie ed un’autocitazione nel voler sempre ragione lui era lì…”. Vi viene in mente nessuno in particolare? Ne abbiamo avuti – e ancora ne abbiamo – di questi “nuovi re”.
Siamo alle battute finali e per concludere il disco i Nomadi scelgono Esci fuori, un brano acustico scritto da Cristiano Turato, nel quale viene descritta la vita di paese osservata dalla finestra di casa: “Piove per le strade, si corre, qualcuno si copre… / Al bar si guarda su e si beve del vino e si impreca col bicchiere in mano… / In piazza il mercato sta sotto i grandi ombrelloni, si fanno i conti e due parole… / Sotto questa pioggia che bagna sente la vita che scorre felice e non si ferma…”. Un quadretto quasi idilliaco, con le persone intente a vivere la propria quotidianità in maniera serena e normale, come se la vita di paese e le sue tradizioni millenarie potessero ergersi a scudo rispetto alla frenesia, agli eccessi e alla confusione cantata nelle tracce precedenti del disco.
I Nomadi sono così, semplici e diretti, e con le loro canzoni dicono da sempre quello che devono e che vogliono dire, senza tanti giri di parole; a volte usano toni e arrangiamenti più forti, altre volte scelgono atmosfere più soffuse e delicate, ma sempre in modo credibile e quasi mai banale. Anche Lascia il segno segue il solco di questa felice tradizione e alla gente che li segue, il famoso “popolo nomade”, va bene così, anzi: guai se così non fosse!
Fotografie ©Nomadi2015
Matteo Manente