LECCO – Il disco è sul piatto, inizia a girare mentre la puntina va a posizionarsi sul primo solco: qualche secondo di leggero scricchiolio e poi il silenzio è squarciato dalle note di un’armonica a bocca e di un pianoforte che si intrecciano alla perfezione, scandendo poche note a cui si unisce subito la voce narrante di un allora giovane artista del New Jersey, all’epoca smilzo e barbuto, promettente ma non ancora conosciuto dal grande pubblico: “The screen door slams / Mary’s dress waves / like a vision she dances across the porch / as the radio plays / Roy Orbison singing for the lonely / hey that’s me and I want you only…”. La voce è naturalmente quella di Bruce Springsteen e l’album è, altrettanto naturalmente, quel capolavoro che risponde al nome di Born to run, il disco della definitiva consacrazione del rocker americano, pubblicato il 25 agosto 1975 dalla Columbia e che giusto quest’anno festeggia le quaranta candeline tonde tonde.
La genesi di questo album è presto detta: nel 1975 Springsteen – considerato da tanti come il “nuovo Dylan” e additato una sera come “il futuro del rock n’roll” da parte di Jon Landau, un critico musicale che da lì a poco sarebbe diventato il suo braccio destro – aveva alle spalle già due dischi molto interessanti (Greetings from Asbury Park, NJ e The Wild, the Innocent & The E Street Shuffle, entrambi del 1973), ma poco fortunati dal punto di vista delle vendite. Born to run rappresentava dunque il suo vero banco di prova: il cantante del New Jersey sapeva di giocarsi tutta la sua futura carriera con quel disco, sapeva che non ci sarebbe stata un’altra possibilità.
Anche per questo motivo Bruce e i ragazzi della E Street Band passarono mesi e mesi in sala di registrazione prima di giungere a un risultato convincente, nel tentativo di fissare su disco l’idea di quel “wall of sound” così pieno e potente che girava tanto chiaramente nella testa di Springsteen. Le sessioni di registrazione furono travagliate, con l’E Street Band chiamata spesso a fare gli straordinari per assecondare le richieste del suo Boss: un lavoro di squadra massacrante, che però alla fine permise di comporre le otto tracce necessarie alla realizzazione del disco, otto tracce musicalmente più rock delle precedenti e con testi ancora molto poetici ma più sintetici e mirati, dai quali emergeva chiaramente il ritratto di un’America difficile dalla quale però, grazie all’esuberanza e alla ribellione giovanile dei protagonisti delle canzoni, sembrava ancora possibile poter scappare. Amori adolescenziali, amicizia, speranza, illusione, ribellione, voglia di fuggire da una realtà sempre più opprimente, autostrade su cui correre e sfogarsi con la propria macchina come se non ci fosse un domani e ragazze sedute sul sedile posteriore ad accompagnare questo anelito di fuga verso un futuro che per forza doveva essere migliore: sono questi i temi principali che emergono da Thunder road, Tenth avenue freeze-out, Night, Backstreets, Born to run, She’s the one, Meeting across the river e Jungleland, le otto perle che compongono un disco che inevitabilmente avrebbe fatto la storia del rock, permettendo di fare il salto di qualità necessario al suo autore e legando per sempre il suo nome all’olimpo della musica mondiale: nel 1975 Springsteen era davvero l’uomo nuovo del rock americano.
Da allora sono passati quarant’anni, ma la freschezza musicale, narrativa e interpretativa di quelle canzoni resta ancora immutata, così come immutata resta la scena che, come in una visione cinematografica, apre Thunder Road e introduce l’ascoltatore all’interno di un viaggio popolato da eroi semplici e intrisi di una quotidianità realmente vissuta. Quarant’anni dopo Thunder Road non è più soltanto una canzone, nel frattempo è diventata la canzone per tantissimi fans di Springsteen, quella più amata; come nel 1975, però, è ancora un manifesto d’intenti, un concentrato di emozioni e stati d’animo che tutti, almeno una volta, hanno provato sulla propria pelle. Difficile non cantare a memoria la prima strofa o farsi trasportare dall’enfasi liberatoria del conclusivo “it’s a town full of losers and we’re pulling out of here to win”. Tenth avenue freeze-out sprizza ancora tutta la freschezza e la briosità di un tempo: impreziosita da una sezione fiati, strizza più di un occhio al rhythm’n’blues, mentre il testo ricorda anche il primo incontro fra Big Man e Scooter, alias Clarence Clemons e Bruce Springsteen. La notte come momento di riscatto e liberazione dopo una dura giornata di lavoro fa da sfondo a Night, uno dei brani più rock e tirati dell’intero album: qui per la prima volta compare il tema del lavoro e della condizione del working class hero, costretto a faticare e a tener duro durante il giorno, prima di sfogarsi quando cala il buio della notte. Backstreets è un’ode all’amicizia più vera, quella che non si spezza nonostante gli anni che passano e le vite che accadono: non è dato sapere se Terry sia un amico fraterno o la compagna del protagonista in tante fughe romantiche, ma ad ogni modo si sono conosciuti in una calda notte d’estate e da allora il loro legame di amicizia non s’è mai interrotto. Un incedere epico ed emozionante, che lascia all’ascoltatore la scelta di quale interpretazione dare al brano e che chiude di fatto la prima facciata dell’LP.
Il rock n’roll è pieno di incipit fulminanti ed esplosivi, intro di poche note che da sole valgono come biglietto da visita per l’intera canzone: in questo senso non fa eccezione la rullata di Born to run, che alla pari di Thunder Road contiene al suo interno tutti i tratti distintivi dell’album. Amore, ribellione, corse in auto lungo la Highway 9 per evitare le molte “trappole mortali” della vita, voglia di cambiamento e speranza in un domani che per qualche ragione si è certi che debba ancora e per forza arrivare hanno trasformato questa grande canzone in un inno collettivo e trans-generazionale: “Someday girl I don’t know when / we’re gonna get to that place where we really want to go / and we’ll walk in the sun / but till then tramps like us baby we were born to run…”. Passione e sentimento si intrecciano invece in She’s the one, dando forma a una canzone dal ritmo tipico dei pezzi di Bo Diddley: un brano d’amore puro e semplice, caldo e seducente, che dal vivo si carica di ulteriore pathos e sensualità. Meeting across the river è invece una ballata metropolitana tipica del primo Springsteen, un bozzetto notturno di civiltà urbana dai toni più soffusi e dilatati, con la tromba a condurre le danze, inserito quasi allo scopo di creare l’atmosfera più adatta per introdurre il pezzo conclusivo dell’album, il vero pezzo da novanta del disco: Jungleland. Se Thunder Road, Backstreets e la stessa Born to run avevano già detto molto sulle potenzialità espressive del nuovo disco di Springsteen, la conclusiva Jungleland suggella in modo sublime tutto il lavoro, mettendo il punto esclamativo e la parola fine a un disco che non poteva non lasciare il segno nel mondo del rock. È difficile spiegare l’epicità, la potenza letteraria e musicale di questa cavalcata di oltre nove minuti: una lezione di rock’n’roll esplosiva, dal forte taglio cinematografico, piena di personaggi come Magic Rat, gang notturne, illegalità, debiti da pagare e passioni che sfociano in un crescendo musicale scandito dal pianoforte, dal sax e dalle chitarre: semplicemente, un capolavoro!
Quarant’anni dopo possiamo dire senza ombra di dubbio che Born to run è stato un disco necessario, liberatorio, a volte profetico, anche se a tratti ingenuo e infarcito di belle speranze e promesse, specie se consideriamo la disillusione del successivo Darkness on the edge of town e tutte le ombre che si porta dietro. In definitiva, però, Born to run è stata la scommessa vinta di un ragazzo che a venticinque anni ha deciso di prendersi in mano il proprio futuro, caricarlo insieme ai suoi sogni sul sedile posteriore di una decapottabile e iniziare a correre lungo l’autostrada di un sogno americano che già allora iniziava a traballare, nel tentativo di scappare da una città di perdenti e, allo stesso tempo, di aprire la strada e offrire un’alternativa di fuga credibile per tutti quelli che si trovavano nelle sue stesse condizioni.
Quarant’anni dopo stiamo ancora correndo in compagnia di Mary, Wendy, Terry, Magic Rat, Scooter, Big Man e tutti gli altri protagonisti che popolano i solchi di questo disco, alla ricerca di una felicità ultima, una terra promessa che forse non c’è, ma che è ragione stessa di ricerca e di vita. Born to run raccoglie tutte queste fascinazioni, è l’espressione più alta della speranza non ancora disillusa di chi, giovane e ingenuo, non si è ancora fatto condizionare dalle avversità della vita. È l’ultimo canto di coraggio, l’ultimo appiglio di gioventù a cui cercare di aggrapparsi prima di entrare nella vita adulta, è la voglia di non arrendersi e di credere che esista ancora un’ultima chance di redenzione… e oggi, visti i tempi che viviamo, l’attualità di questo disco è ancora più evidente: canzoni come Thunder Road, Born to run o Backstreets stanno proprio lì ad indicare la rotta e il cammino, perché in fondo “tutti i vagabondi come noi sono nati per correre”.
Matteo Manente