Nel bene o nel male Neil Young è sempre rimasto identico a se stesso, inutile chiedergli di essere qualcosa di diverso da quello che è sempre stato da cinquant’anni a questa parte e il nuovo album Barn non fa altro che confermare questa tendenza: fra i suoi solchi c’è dentro tutto l’universo musicale del rocker canadese, dall’anima più intima ed acustica di Harvest a quella più elettrica e incendiaria di Zuma o Rust never sleeps, il tutto supportato da testi sempre pronti tanto a denunciare le storture del mondo contemporaneo, quanto a piegarsi alla dolcezza dei sentimenti e alla malinconia per il tempo che passa.
Per l’occasione Neil Young ha chiamato nuovamente a raccolta gli storici Crazy Horse, i Cavalli Pazzi al suo fianco per decenni seppur a periodi alterni, radunandoli prima in un fienile (in inglese “barn”, da cui il titolo dell’album) e poi lasciando campo libero per tornare a galoppare come solo loro sanno fare lungo le infinite praterie del rock and roll. Il risultato sono le dieci nuove tracce che compongono l’ispirato Barn, un disco costantemente in bilico fra atmosfere acustiche alla Harvest o Comes a time e cavalcate elettriche e psichedeliche tipiche di Zuma o Tonight’s the night. Per spiegare questa dicotomia che vale come comun denominatore per tutto il disco, basta ascoltare le prime due tracce dell’album: Song of the seasons è una ballata per chitarra acustica e armonica che si aggira direttamente dalle parti di Out on the weekend o Harvest moon e tratteggia l’unione fra intimo e collettivo su sfondo ecologista (“We’re so together in the way that we feel / that we could end up anywhere”), mentre Heading west è una cavalcata rabbiosa e potente in tipico stile Crazy Horse, che facendo riferimento al mito della fondazione e della frontiera rimanda direttamente a pezzi come Rockin’ in the free world o la storica Cortez the killer.
Lo schema acustico-elettrico prosegue per tutte le tracce di Barn, declinandosi talvolta in blues elettrici e dylaniani come Change ain’t never gonna, altre volte in episodi più dolci come Shape of you dedicato alla propria compagna. Il rock torna roboante in Canerican¸ simpatico quadretto a base di chitarre distorte nel quale Young rivendica contro ogni retorica la recente acquisizione della cittadinanza americana che va ad affiancarsi a quella canadese d’origine, mentre l’inquietudine per il tempo che passa inesorabile affiora nell’intimistica Tumblin’ thru the years, ballata con tanto di ottimi contrappunti di pianoforte. Testi militanti in pieno stile Young compaiono invece nell’altro pezzone rock del disco, Human race, un’invettiva su base ambientalista ed ecologista senza tanti giri di parole (“Who’s gonna save the human race? / Where are the children gonna run and hide?”). They might be lost è un altro gran pezzo, un lento in cui piano e armonica dettano le danze conferendo al brano un’atmosfera sospesa e quasi angosciante; dalle stesse parti si aggira Welcome back, un folk blues di oltre otto minuti dalle tinte ancora più oscure, che non sfigurerebbe affatto nel canzoniere di Nick Cave. Infine, a conclusione delle dieci tracce che compongono Barn, ecco Don’t forget love, esercizio di stile perfettamente riuscito per dare una speranzosa buonanotte dal fienile delle Rocky Mountains, Colorado.
Barn non è un capolavoro e non sarebbe nemmeno lecito aspettarselo da uno che di capolavori ne ha già disseminati parecchi in oltre 50 anni di onorata militanza nell’olimpo del rock; eppure non è nemmeno un disco di mestiere, bensì un lavoro pensato e studiato per avere una propria identità e una doppia anima – acustica ed elettrica insieme – che ben si inserisce nell’ormai infinito canzoniere del Loner canadese-americano. Barn è il massimo di quello che nel 2021 potevamo chiedere alla premiata ditta Neil Young & Crazy Horse in versione Talbot, Molina e Lofgren: la voce di Young non è più quella di una volta e l’età si fa sentire per tutti, ma la rabbia e la poesia sono ancora un fuoco acceso nelle vene che necessitano di ampie praterie dove trovare libero sfogo, prima di essere ricondotte sotto forma di canzoni che sanno ancora emozionare e lasciare gli inconfondibili brividi di una volta… welcome back, Cavalli Pazzi!
Matteo Manente