RADIO FLÂNEUR – “2020” dei Bon Jovi.
La band del New Jersey torna in pista fra rock e impegno sociale

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Quando non puoi fare quello che fai, fai quello che puoi”: è questo lo spirito che riassume il senso del nuovo album dei Bon Jovi, intitolato non a caso e molto semplicemente 2020. Un nuovo disco che in quasi tutte le dieci tracce di cui è composto affronta tematiche legate all’attualità politica e sociale degli Stati Uniti e non solo: dall’emergenza sanitaria mondiale scatenatasi con il Covid-19 (Do what you can) alla necessità di svegliarsi e di non cedere alla paura di questi tempi bui e delle sue prigioni fisiche o mentali che siano (Limitless), dal razzismo dilagante esploso dopo la morte di George Floyd (American reckoning) al problema delle stragi avvenute per armi da fuoco (Lower the flag), fino al tema dei migranti (Blood on the water) e a quello mai sopito dei disturbi post-traumatici subiti dai soldati e dai veterani tornati dalle varie guerre ancora sparse per il mondo (Unbroken). Nel mezzo, come unica medicina possibile, come unico rimedio a questo declino sociale e umano che sembra inarrestabile, Jon Bon Jovi indica e canta l’amicizia e l’amore fra gli esseri umani, (Beautiful drug), il coraggio di non farsi condizionare dai tanti falsi profeti in circolazione (Let it rain), ma soprattutto l’amore per la propria famiglia (Story of love) e quello per la comunità e il suo senso di appartenenza in opposizione all’egoismo imperante (Brothers in arms).

2020 è un disco sincero, finalmente a fuoco e ben riuscito; un disco figlio di una band e soprattutto di un leader – Jon Bon Jovi – che da anni ha preso consapevolezza del suo ruolo di artista e cittadino, che ha fatto i conti con l’età che avanza per tutti e col fatto che non avrebbe senso, all’alba dei quasi 60 anni, proseguire sul filone dell’hard rock o di un pop-rock più radiofonico che ha reso celebri i Bon Jovi in tutto il mondo tra la metà degli anni ’80 e i ’90. Il nuovo disco è quindi una lente d’ingrandimento su alcuni dei grandi problemi che affliggono gli USA e il mondo intero in questo periodo storico, nel quale l’autore e cantante si fa carico di dare voce a chi non ne ha o non ha possibilità di averne; un disco che parte forte con quel “Wake up, everybody wake up!” cantato in Limitless e che si chiude con le considerazioni mai banali del reduce di guerra protagonista di Unbroken: “It’s eighteen months now, I’ve been stateside with this medal on my chest / but there are things I can’t remember and there are things I won’t forget / I lie awake at night with dreams the Devil shouldn’t see / I wanna scream, but I can’t breathe / and Christ, I’m sweatin’ through these sheets / where’s my brothers? Where’s my country? Where’s my “how things used to be”?”. Un uomo distrutto, che invoca salvezza da un Dio di misericordia e luce (“God of mercy, God of light / save your children from this life / hear these words, this humble plea / for I, have seen the suffering and with this prayer, I’m hopin’ that we can be unbroken…”), ma che al tempo stesso è consapevole che come una benedizione e maledizione al tempo stesso servirebbe di nuovo il suo Paese: “Was it worth it to be of service in the end? / Well, the blessing and the curses yeah, I’d do it all again…”.

Come già anticipato, il singolo trainante Do what you can è stato scritto di getto dai Bon Jovi durante i mesi del lockdown conseguenti al dilagare anche in America della pandemia del Coronavirus: il testo del brano, così come il relativo videoclip, è un continuo rimando a situazioni e immagini che da mesi vediamo in tutti i telegiornali (“Our kids are home in isolation, tv-news is always on…”), fra mascherine, distanziamento sociale, medici e ambulanze che fanno di tutto per salvare le vite di chi è stato colpito da questa malattia (“They built a hospital on East Meadow in Central Park last night / doctors, nursers, truckers, grocery stores clerksmen and all front line / I saw Red Cross on the Hudson, they turned off the Broadway lights / another ambulance screams by…”). La speranza necessaria per reagire a una situazione del genere è racchiusa tutta nel ritornello della canzone: “When you can’t do what you do, you do what you can / this ain’t my prayer, it’s just a thought I’m wanting to send / ‘round here, we bend but don’t break, down here we all understand / when you can’t do what you do, you do what you can…”.

Un altro pezzo figlio di questo 2020 così sciagurato è senz’altro American reckoning, ispirato invece ai tragici fatti legati all’uccisione del giovane di colore George Floyd per mano di un poliziotto bianco: il brano, prendendo spunto da questo episodio di cronaca che ha fatto il giro del mondo e che ha scatenato centinaia di proteste in tante piazze americane (“America’s on fire, there’s protests in the street… another mother’s crying, as history repeats, I can’t breathe…”), è un atto d’accusa diretto contro il razzismo ancora diffuso nel 2020 e racconta la vicenda con modalità simili a quelle usate da Springsteen vent’anni fa per American skin (“God damn those 8 long minutes, lying face down in cuffs on the ground / bystanders pleaded for mercy as one, cop shoved a kid in the crowd / when did a judge and a jury become a badge and a knee on these streets? / Stay alive, stay alive / shine a light, stay alive / use your voice and you remember me, american reckoning…”).

Il tema dell’immigrazione e di chi cerca di farsi una nuova vita sotto la tanto sognata bandiera a stelle e strisce è affrontata nella stupefacente Blood in the water, che assieme a Let it rain è il vero il pezzo forte del disco; se musicalmente richiama molto da vicino quel capolavoro intitolato Dry county – anno di grazia 1992, ma quella era un’altra vita e un’altra band! – Blood in the water si contraddistingue per un arrangiamento sontuoso e un testo per nulla scontato: “Once I came across your border, now they come to take me back / I sleep with one eye open, I don’t make waves, I don’t leave tracks / for my daughter and my three sons it’s the only life they’ve known / to me it’s my asylum, these stars and stripes my home… Blood in the water, who’s jumping in? / The devils made his final offer, now the sharks are circling… / Blood in the water, our fates are sealed / the devils greatest trick was just to say he wasn’t real…”.

La sopracitata Let it rain invece sembra uscita direttamente dalla penna del conterraneo Bruce Springsteen, almeno per l’arrangiamento e il sound che la permea dall’inizio alla fine; il testo incita a farsi bagnare da una metaforica pioggia salvifica contro i tanti mali del nostro tempo (“Let it rain, let it rain / let the rain fall all around / who’s gonna stop the rain from falling down?”), nella speranza che un giorno non verremo più giudicati per il dio che preghiamo o per il colore della nostra pelle e che preti e politici non ci venderanno nient’altro che la verità sullo stato delle cose: “Maybe someday eyes won’t judge you by the bed you’re sleeping in / the God you want to pray to or the color of your skin / when priests and politicians sell the truth and nothing more / that day we’ll know what all of this was for…”.

Un’altra piaga che affligge da sempre gli Stati Uniti è quella dell’accesso alle armi da fuoco e dell’utilizzo fin troppo facile di quest’ultime da parte dei singoli cittadini, garantito dalla carta costituzionale statunitense; Lower the flag, prendendo spunto da una delle tante stragi avvenute per un uso dissennato delle armi fra strade, bar, centri commerciali, collage e campus universitari degli States, è di fatto una condanna diretta al secondo emendamento della costituzione americana, che per l’appunto sancisce il diritto a tutti i cittadini di possedere un’arma: “Word just came from upstate, Joe / lower the flag again / this time it’s Dayton, southwest Ohio / last night El Paso, Texas counted 22 dead / Soon the brass will offer up their thoughts and prayers / soon there’ll be protests in the street / and the media from out of town will chew it up and spit it out / then move on to the next one before we even grieve…”. Il ritornello lancia un ultimo accorato messaggio di speranza, affinché si possa vivere la propria vita senza questo genere di dolore: “Some say we start to die on the day that we’re born / but no one wants to live life on their knees / maybe we start to die on the day that we’re born / but we deserve to live life in between…”.

Come argine a tutta questa neanche troppo apparente tragicità, i Bon Jovi puntano tutto sui sentimenti di amore e fratellanza nei confronti degli amici, dei famigliari e della comunità di appartenenza: Beautiful drug celebra l’amore come unica droga possibile contro ogni avversità (“Love is the drink to healing thirst / hear my confession, I don’t even need a church… / Love is a beautiful drug / I’m talking ‘bout, love is a beautiful / a mystery that sets you free, it’s what you want, it’s all we need / love is a beautiful drug…”); Story of love è la classica e immancabile ballatona del disco, un’ode sincera all’amore familiare che si tramanda fra le generazioni (“Fathers love daughters like mothers love sons / they’ve been writing our story before there was one / from the day you arrive, till you walk, till you run / there is nothing but pride, there is nothing but love…”); Brothers in arms invece è un gran rock tirato che racconta la necessità di resistere ai momenti difficili, puntando sul senso di fratellanza e di protezione dato dalla comunità in cui si vive, in opposizione al facile egoismo che tanti vorrebbero far prevalere nelle nostre vite (“There’s no 7th day in a world without pity / there’s no ball and chain but the change didn’t come / where’s my better days? Where’s my Jesus saves? / Where’s someone to say? / We got to hang on, we’re brothers in arms…”).

Di fronte ai tanti problemi di stretta attualità presenti nell’album, non si può dire che i Bon Jovi non abbiano pubblicato un disco al passo coi tempi che stiamo vivendo; il loro 2020 parla esattamente del nostro presente, è una fotografia più che nitida sulla realtà distorta dei giorni nostri che non sfocia mai in pedante retorica o frasi di circostanza, anzi: a tratti risulta quasi un preciso atto d’accusa verso la politica americana di Trump e non è assolutamente un caso che sia stato pubblicato a un mese di distanza dalle prossime elezioni presidenziali americane. In attesa di vedere come andrà a finire la corsa per la Casa Bianca, non ci resta che fare affidamento ai versi finali di Do what you can e alla loro dose di necessaria speranza: “Although I’ll keep my social distance what this world needs is a hug / until we find the vaccination there’s no substitute for love…”.

Matteo Manente

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