Sabato 15 ottobre 2016 è andato in scena a Merate (nell’ambito del festival Caffeine) Jentu, spettacolo di teatro-danza che è una nuova creazione di Zerogrammi, compagnia rivelazione degli ultimi anni. In occasione di questo appuntamento abbiamo intervistato Stefano Mazzotta, direttore artistico di Zerogrammi.
Stefano Mazzotta, dal 2006 è il direttore artistico della compagnia. Ci racconta com’è nata questa realtà e con quale spirito?
La compagnia è nata parallelamente a uno degli ultimi lavori che ho svolto come interprete presso un’altra realtà italiana, Artemis Danza, che a sua volta ha incentivato la nascita di Zerogrammi grazie a Monica Casadei. Monica ha ravvisato come sia nella mia attività di interprete che in quella del mio ex collega Emanuele Sciannamea, con il quale abbiamo fondato questa compagnia, ci fossero delle cose interessanti da sviluppare. Ci siamo ritrovati di colpo a costruire il nostro primo spettacolo sulla scia di una voglia di utilizzare il linguaggio della danza in maniera semplice. Arrivavamo da percorsi interpretativi piuttosto duri, non solo per quanto riguarda la fatica ma anche dal punto di vista drammaturgico, a causa una ricerca che tendeva spesso a rendere il linguaggio pesante. Ecco perché Zerogrammi. L’intenzione, la voglia, la volontà di adoperare questo linguaggio per parlare in leggerezza al pubblico, raccontare le cose nella maniera più semplice e chiara possibile. Questa è stata la poetica che ha dato vita a una serie di lavori che hanno permesso di raggiungere il nostro scopo. Spesso la danza contemporanea si arrovella un po’ su se stessa, fa fatica a comunicare oppure tralascia l’esistenza di un pubblico. E invece questa dovrebbe essere la prima cosa da considerare quando si va in scena. L’intelligibilità di un messaggio anche quando non è detto ma danzato.
La parola “condivisione” ricorre spesso nella storia di Zerogrammi. Un termine frequentemente ignorato nel mondo dell’arte e dello spettacolo italiano attuale?
Purtroppo sì. La cosa più grave che ho riscontrato in questi ultimi anni nel teatro di ricerca e nella danza è proprio il fatto che, per diverse questioni, pullulano artisti solitari, magari senza i mezzi per produrre insieme ad altri il proprio lavoro e la propria idea. Oppure artisti che tendono a dimenticare l’esistenza di un pubblico, a volte, anche perché la danza, nello specifico, è frequentata spesso da élite di persone alle quali si richiede di essere intelligenti nel senso più universitario del termine. Credo invece che la danza sia un linguaggio universale e in quanto tale vada condiviso sia con il bambino di un anno che con l’anziano novantenne. Dev’essere comprensibile sia quando arriva al termine della sua ricerca, mostrando il proprio prodotto, sia nel processo creativo. Il danzatore, il coreografo, l’autore e il regista devono incontrare il pubblico, devono incontrare la persona, condividere il percorso anche e soprattutto con chi non possiede gli strumenti del linguaggio coreografico. Mi piace moltissimo pensare che il processo creativo possa incontrare più quantità e varietà di pubblico possibile, perché questo mi restituisce la semplicità del racconto.
Esiste un filo conduttore dal quale solitamente parte per sviluppare il suo lavoro in scena?
Dipende dai temi e dai percorsi, anche in termini di riferimenti letterari, che decido di intraprendere. In tutto c’è sempre il bisogno dell’attesa: non forzare mai un messaggio e la sua costruzione imponendolo, ma lasciare che arrivi a noi attraverso l’ispirazione, così come la costruzione del movimento coreografico. Spesso nei lavori che realizzo vedo che ci sono sempre prima, durante e dopo momenti di attesa, che aprono delle domande, anche rispetto alla qualità del rapporto con il pubblico. Attendere significa aprire a un dialogo con lo spettatore.
Quest’anno con Zerogrammi ha prodotto, diretto e coreografato lo spettacolo “Jentu”, definito come una rivisitazione del “Don Chisciotte” di Cervantes ma non solo…
Questo lavoro chiude un percorso che ho intrapreso sulla cifra dell’eroe iniziato da Euripide due anni fa, che ha avuto un processo creativo molto lungo, tra la Germania e l’Italia, e che si conclude proprio con questo spettacolo. È una riscrittura del Don Chisciotte di Miguel de Cervantes, una riflessione sul tema dell’eroe. Mi interessa indagare questa figura in rapporto a quella che è la società contemporanea. Che tratti avrebbe un Don Chisciotte al giorno d’oggi? Sarebbe forse l’accattone, il derelitto, l’operaio, la persona che vive le sue difficoltà quotidiane, i suoi dubbi, i suoi sogni infranti? E allora questo Don Chisciotte prende il nome di Jentu, perché di Don Chisciotte resta questa ispirazione, diventa un invito a credere. Diventa il racconto di una figura goffa che ha i tratti del Don Chisciotte, la sua follia forse. Una figura goffa che stenta a credere, stenta a essere creduta ma ha dei sogni che vuole realizzare. E lo spettacolo è un invito a perseguire questo obiettivo. È un invito alla ricerca del bello, del giusto. Questo è Don Chisciotte. Lo spettacolo si sviluppa in scena attraverso il dialogo tra due personaggi: Don Chisciotte e un secondo personaggio che potrebbe essere Sancho Panza o Dulcinea. Entrambi esprimono due facce della stessa medaglia: l’uno il bisogno di essere creduto e l’altro il bisogno di credere in qualche cosa.
Quanti Don Chisciotte s’incontrano nella vita di tutti i giorni?
Io per primo mi sento Don Chisciotte! Credo che un po’ tutti, almeno una o due volte nella vita, ci siamo sentiti così perché tutti noi possiamo esserci sentiti incompresi rispetto a quelli che sono i nostri ideali e ai nostri sogni, oppure abbandonati dagli altri. Il mondo è pieno di Don Chisciotte. Oggi siamo forse un po’ tutti Don Chisciotte, perché siamo un po’ tutti perduti, in una società che tende a non condividere, o a farlo in maniera fittizia. Non si condivide mai in maniera fisica ma solo attraverso la realtà virtuale. Forse avremmo tutti un po’ bisogno di coltivare l’incontro con l’altro perché solo così possiamo veramente condividere e dare forza e corpo a quelli che sono i nostri sogni. Attraverso la condivisione diventa tutto più forte e tutto più reale.
Davide Sica