“Shahrazād” – “Tre uomini in barca (per non parlare del cane)” di Jerome K. Jerome, un classico che risuona (anche di questi tempi)

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«Eravamo in quattro – George, e William Samuel Harris, e io, e Montmorency. Eravamo seduti in camera mia a fumare e discorrere di quanto stessimo male – da un punto di vista sanitario, intendo, si capisce. Ci sentivamo tutti depressi, il che cominciava a innervosirci».

Così comincia Tre uomini in barca (per non parlare del cane), il classico della comicità scritto da Jerome K. Jerome nella Londra di fine dell’Ottocento: tre gentiluomini inglesi, afflitti dalla noia, per sfuggire alla depressione e all’ipocondria decidono di risalire il Tamigi su una barca a remi.

«George disse:

– Risaliamo il fiume.

Disse che avremmo trovato aria fresca, movimento e pace; il continuo cambiamento di paesaggio avrebbe occupato le nostre menti (incluso quel che c’era in quella di Harris), e il duro lavoro ci avrebbe fornito un robusto appetito e buon sonno».

In Tre uomini in barca non succede niente. Non c’è sviluppo nella trama, crescita psicologica dei personaggi, un colpo di scena nella vita del protagonista. Si tratta del racconto del viaggio fatto in prima persona dal narratore ai lettori, a cui si rivolge direttamente («Chiedo scusa. Dov’ero rimasto?»; «Voi non…beh, vi fornirò solo un’idea di come Harris canta una canzonetta comica, e potrete giudicare voi stessi»; «Se vi fermate a Sonning scendete al “Toro”, dietro la chiesa»).  Dandy appassionato di storia e aneddotica inglese, il narratore descrive ai lettori l’itinerario con la scrupolosità di una guida turistica, non risparmiando particolari che potrebbero rivelarsi utili («Il laghetto a valle della chiusa di Standford è un posto perfetto per annegarsi») e digressioni storiche, che diventano vere e proprie rievocazioni nel presente («Re Giovanni è sceso sulla riva e noi aspettiamo in silenzio, trattenendo il respiro, fino a che un alto grido fende l’aria»).

Ciò che conta non è la storia in sé, ma le occasioni narrative che la storia fa nascere. Sopra la trama principale, infatti, il narratore evoca personaggi ed episodi della sua vita passata («Mi ricorda sempre il mio povero zio Podger», «Ricordo che un mio amico», «Una volta vivevo con un tipo») e descrive le disavventure della navigazione. Ricordi, ricordi nel ricordo, digressioni, visioni: questi elementi inseriti nella trama dilatano il tempo e sono il cuore della narrazione. La gita in barca è una scusa, un espediente tecnico di cui l’autore si serve per costruire il romanzo, che può leggersi anche come una raccolta di racconti comici, tutti ben riusciti.

La comicità del libro è senz’altro nella voce narrante che descrive episodi quotidiani con un linguaggio letterario (il narratore è consapevole di essere uno scrittore: «Quando ho cominciato a scrivere questo libro ho deciso di attenermi strettamente alla verità»), che ha pretese poetiche e a tratti filosofiche.

Ed è proprio quando la scrittura raggiunge il punto più alto che la storia inciampa in qualcosa di molto basso, che spezza la tensione e genera il sorriso nel lettore. È quello che succede ad esempio nel capitolo XII: J. è al timone e da lontano avvistano una barca su cui ci sono tre uomini «che sembravano vecchi e dall’aria solenne. Sedevano su tre sgabelli sulla barca e guardavano intensamente le loro lenze. E il rosso tramonto gettava sulle acque una luce misteriosa, e tingeva di fuoco le cime degli alberi e dava un’aura dorata alle nuvole ammassate insieme». In un crescendo di poesia e di immagini estatiche si sviluppa la scena che culmina con lo scontro delle due barche e gli improperi dei vecchi saggi: «ci maledicevano – non con maledizioni banali e frettolose, ma con maledizioni lunghe, complesse e ampie che abbracciavano tutta la nostra carriera e proseguivano sul nostro futuro lontano, includevano al completo la nostra parentela e tenevano conto di tutto quanto potesse riguardarci – buone maledizioni corpose

La forza dello stile di Jerome K. Jerome si gioca sul piano del linguaggio: non servono eventi clamorosi, incontri straordinari, grandi rivelazioni, anzi. Sono i fatti comuni a esaltare la comicità, ponendosi come contraltare di un linguaggio volutamente pomposo. E allora la ricerca fallita del barattolo di mostarda ha un risvolto esistenziale («La mancanza di mostarda avvolse la barca di mestizia»), i tentativi di aprire una lattina di ananas somigliano a una vera e propria battaglia sul campo («Harris ne uscì con una ferita superficiale»); le acrobazie di Harris mentre cucina le uova strapazzate sono l’occasione per una riflessione antropologica («supponemmo che si trattasse di qualche piatto dei Pellirosse o degli indigeni delle Hawaii»); l’incontro tra Montmorency e un gatto si sviluppa in un dialogo platonico.

Se quelli appena elencati non fossero sufficienti, un altro buon motivo per leggere o rileggere Tre uomini in barca (per non parlare del cane) in questo periodo è la determinazione che i protagonisti rivelano sul finale e che insegna a resistere e ad andare avanti, anche dopo mille peripezie:

«Su un punto eravamo tutti d’accordo, cioè che qualunque cosa fosse accaduta, avremmo portato a termine la nostra impresa. Eravamo partiti per divertirci una quindicina di giorni sul fiume, e una quindicina sarebbero stati. A costo della vita!»

L’AUTORE – Jerome Klapka Jerome nasce a Caldmore, nel Regno Unito, nel 1859. Ha un’infanzia sfortunata: le difficoltà economiche in cui versano, costringono i genitori a trasferirsi in un sobborgo londinese misero. Pubblica la sua prima storia su una rivista, ma il successo arriva nel 1889 con Tre uomini in barca (per non parlare del cane), tradotto in tutte le lingue e diventato un classico della comicità di fama mondiale. Altre sue opere sono Pensieri oziosi di un ozioso (1889); Tre uomini a zonzo (1900); Paul Klever (1902); Anthony Jones (1923); La mia vita e i miei tempi (1926-27).

Claudia Farina

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L'autore di questo articolo

Claudia Farina

È la più piccola dei flâneurs, con una chioma ribelle e un sacco di sogni. Fin da bambina innamorata del racconto e delle parole, saltella tra una storia e l’altra, tra la pagina e la vita. Laureata in Lettere Moderne, è alla ricerca costante di nuove ispirazioni e di luoghi dove imparare. La tesi sulla narrazione nella musica di Wagner è stata un colpo di testa (e un colpo di fulmine!). Suona il clarinetto da (un po’ meno di) sempre, ama la musica, l’amicizia quella vera, la natura, lo stupore e la Bolivia, che porta nel cuore. Crede negli incontri che cambiano la vita e la rendono speciale, come quello con Il Flâneur! Pensa molto (forse, troppo). Le piace viaggiare e scoprire il mondo, fuori e dentro i libri. Nella scrittura si sente a casa ed è convinta che la cultura, passione ribelle, sia davvero in grado di cambiare il mondo.