«Il primo ricordo è un corridoio inondato di sole». Ognuno ha bisogno di ricordi e di una storia a cui tornare. E Ognuno riconosce i suoi di Elena Rausa è un racconto di ricerca delle radici perdute e forse mai conosciute per davvero. Una ricostruzione che si fonda sui ricordi, su quelli autentici e quelli immaginati, sulle congetture e sui sogni. Su fotografie sbiadite.
«Il primo ricordo è un corridoio inondato di sole. La luce arriva da sinistra, attraverso la porta della cucina che guarda a sud, e dalla stanza in fondo al corridoio. […] Per via della luce, il mio primo ricordo ha un’ora quasi precisa: la luminosità che inonda il marmo del corridoio è quella del primo pomeriggio, quando il sole comincia a girare intorno al palazzo e, per pochi minuti, invade tutta la casa. In mezzo a quel corridoio, al centro del mio primo ricordo, ci sei tu».
A dire “io” è la voce narrante femminile, l’autrice del diario che abbiamo tra le mani, e anche la protagonista della storia. Il “tu” è Michele, un ragazzo steso su un letto di ospedale, privo di conoscenza, che – scopriremo – è stato un bambino dagli occhi celesti e un adolescente ossessionato dall’abbandono.
Chi è Michele per lei che racconta? I suoi contorni non sono precisi: da bambino compare fratello, poi i dialoghi, le parole e sogni lo scoprono figlio di un’ altra, accolto e poi ripreso dalla famiglia della protagonista: «non siamo mai stati abbastanza lontani da esserci estranei e nemmeno vicini come sono i fratelli».
Tanto grande è il bisogno della narratrice di conoscere il passato, che dove non arrivano la memoria e i racconti, lei costruisce finzioni, riempie i vuoti con pieni di immaginazione. Quello che vuole fare è unire i puntini per arrivare a conoscere e a capire, «Perché – scrive a Michele – è per te che lo faccio, mi dico che questa è l’ultima possibilità che abbiamo, tutto quello che ci resta».
Un libro sui ricordi, dunque, su quelli che fondano i legami di sangue. Ricordi affidati a vecchie fotografie: «Ci restano centinaia di foto e nessun filmino, tutti scatti casuali. Immagini sfocate, scentrate. Negativi e foto stanno tutti in una scatola grande, di pelle rossa, stampata finto coccodrillo. Ci trovi gli scatti in bianco e nero di Nicola e Teresa per mano a mia nonna Maria, ma anche Anna il giorno della sua prima comunione e Sandro ragazzo sul campo di calcio […]. Poi arriviamo noi».
Compito della narratrice è ricostruire dall’inizio, partendo dalla preistoria («e la nostra preistoria è la Puglia di zio Nicola e di mia madre Teresa»). Nella sua stessa voce ci sono tutte le voci dei personaggi: dalla mamma Teresa, alla zia Ada con il suo dialetto pugliese («Zia Ada dice attenta che se ne esce tutta. […] Pazzi pazzi, ripete, l’aggiu ditto ieu che non era tempo da piantare. Lu sapene che la terra non conosce padrone»), da Sandro ad Anna, di cui immagina i pensieri.
Tortuoso e accidentato, il percorso di ricostruzione della protagonista la porterà a conoscere verità anche su se stessa, verità avvolte dal segreto per tutta una vita, che bucheranno le sue già deboli certezze.
Nelle parole sta la potenza del racconto. Parole precise, misurate e asciutte. Parole giuste, scelte con cura; indirizzate a una persona amata, forse alla più amata di tutte. Parole consegnate a un quaderno, che servono a rievocare e a rendere indelebili i ricordi. C’è la pazienza, dietro a ogni frase; c’è la volontà di fissare ricordi, per consegnarli al risveglio come fili rossi da tirare e da seguire per arrivare all’essenza del legame. Dietro la voce narrante, la penna dell’autrice scompare e, con un lavoro di levigazione e di limatura del testo, restituisce al lettore l’emotività diretta della protagonista, senza privarla della sua carica istintiva.
Il lettore non è mai chiamato in causa, è esterno alla storia ed estraneo a essa, e il sentimento che lo accompagna nella lettura è ambivalente: da una parte gli pare d’impicciarsi in fatti che non lo riguardano, di leggere pagine destinate a un altro, private, sacre; dall’altra si sente parte della famiglia in cui si imbatte attraverso i nomi che emergono uno alla volta, non annunciati, dalle pagine. Chi racconta condivide con l’ascoltatore muto conoscenze che al lettore non sono date, ma che proprio per questo lo fanno sentire alla pari, coinvolto anche lui in quel legame di sangue di cui si stanno tessendo le memorie.
A fianco a Caterina – così si chiama la narratrice protagonista – il lettore percorre la nascita e l’evoluzione dei percorsi di vita dei personaggi, che si incontrano, si intrecciano, poi si sciolgono e si sgretolano e crollano. O forse no. Scoprirà chi sono Teresa e Sandro, chi è Nicola, e chi la zia Daria; conoscerà il Biondo, la nonna Irma e la nonna Maria; capirà chi è Maurizio, e chi Pietro. Conoscerà la ragazza che racconta, di cui fino a pagina sessantasette non sa neppure il nome (eppure già la sente vicina, ne percepisce le contraddizioni e le paure). Scoprirà chi è Anna. Teresa, Sandro, Nicola, Michele, Anna, la stessa Caterina: una galleria di personaggi «fragili, trasparenti e capaci di farsi male», che reagiscono al dolore costruendosi maschere e corazze, barriere difensive.
Avidi e innamorati, gli occhi di Caterina sono gli stessi occhi attraverso cui vede anche il lettore; violente e laceranti le scoperte che insieme alla protagonista il lettore farà durante il libro.
Elena Rausa in questo libro costruisce un’architettura complessa e solida, un albero genealogico intricato di relazioni, nel quale all’inizio il lettore sembra perdersi, salvo poi rintracciare nodi e indizi che lo guidano alla comprensione. La delicatezza e la cura linguistica che contraddistinguono l’autrice si ritrovano in queste pagine, che arrivano sincere anche nella loro durezza.
Ognuno riconosce i suoi è una lettura che va fatta con calma; un racconto istintivo e fluviale che, per la sua forza, ha bisogno di decantare nel petto di chi legge. Una storia che parla a tutti, perché tutti – come Michele e come Caterina – hanno bisogno di una storia a cui tornare.
Claudia Farina