«Peggio di avere un padre che di mestiere fa il professore c’è solo una cosa: che insegni latino».
Inizia così LALE (Einaudi ragazzi), il nuovo romanzo di Stefano Motta, che fin dalla prima riga arriva diretto al lettore. Una voce inedita, quella che l’autore – scrittore, saggista nonché preside della sede meratese del Collegio Villoresi di Monza – sceglie di usare, e un punto di vista originale. A condurre la narrazione è Alessandra «“l’Ale”, con l’articolo milanese davanti », una ragazza di dodici anni, introversa e timida; una preadolescente divisa tra il desiderio di essere riconosciuta come grande e quello di ricevere un bacio dal padre prima di entrare a scuola.
Ed è proprio il padre l’altro protagonista del libro, portato al centro della pagina dallo sguardo di Lale: professore universitario, rigido con gli studenti come con i figli, tutto preso dalle sue responsabilità e dai suoi compiti; un papà che cena in cravatta e di cui Lale ha il timore di non essere all’altezza.
Alessandra confida i suoi pensieri di dodicenne a un diario, indirizzato a Mercy, la Mercedes con cui suo padre l’accompagna a scuola da quando si è rotta una gamba giocando a pallavolo. Una gamba ingessata e i viaggi in macchina verso la scuola: queste le occasioni di un racconto intimo, che porta alla luce i sentimenti della protagonista e conduce il lettore in un’esplorazione a metà strada tra il mondo dei bambini e quello degli adulti.
«Ho dodici anni e mi fanno male». La sensazione di inadeguatezza e allo stesso tempo di insofferenza verso un mondo che non sembra capirti, la paura di sbagliare e di essere giudicata, il terrore di non essere accettata e, anzi, di essere causa di vergogna per le persone che ami: queste le preoccupazioni che vibrano nella penna della protagonista. E la voce, sì, e quella di una bambina che si affaccia sull’adolescenza, con le sue trasformazioni e rivoluzioni, ma sotto le parole di Lale bambina scorre un vocabolario che bambino non è («Se arrossisci sei timida, se digrigni le mascelle sei irosa, se ridi garrula sei un filo oca, se sorridi va sempre bene. Ammirazione e condiscendenza, compiacimento e sarcasmo, gioia e fastidio: tu ce li puoi mettere tutti, come un retrogusto strisciante, e continuare a essere te stessa senza spigoli che si ammacchino»), e che fa pensare a una protagonista già adulta. È come se bambina e donna coesistessero in lei, come se Lale fosse un’adolescente che ha già percorso tutte le età e che ha scelto di tornare a quella più intensa e dolorosa per raccontarla e per raccontare il suo papà, la sua famiglia e per essere vista e guardata, a sua volta, da chi le vuole bene.
Una storia fatta di parole non dette, inventate, camuffate, quelle tra il papà e Alessandra, quelle tra Lale e i grandi «È che voi grandi dovete sempre nascondere le emozioni dietro giustificazioni logiche, pratiche, efficientistiche». Dietro queste parole, un padre che si guarda attraverso gli occhi di sua figlia e si mette in discussione.
Il diario di una ragazzina diventa lo specchio, a volte anche impietoso, per un padre in cui guardarsi e vedere – dentro la realtà o l’immaginazione, fa lo stesso – se stesso e il suo rapporto con la figlia, fatto d’amore oltre le parole: «Papà allunga la mano, mi guarda e ride. Non è che si debba per forza dire qualcosa per comunicare».
Claudia Farina