“Shahrazād” –
Con Isaac B. Singer nella Varsavia che non c’è più. La recensione di “Shosha”

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È un mondo che non c’è più. Un mondo prima tanto vivace, fatto di misticismo ma anche piccola criminalità, di yeshivah in cui imparare i testi della tradizione ebraica e piazze affollate di «prostitute, ruffiani e ladruncoli», di case di studio chassidiche e di bazar. Un mondo oggi completamente scomparso, cancellato dalla Storia novecentesca. È qui, nel quartiere di Varsavia che si estendeva intorno alle vie Nalewki e Krochmalna, che il Premio Nobel per la Letteratura Isaac Bashevis Singer ha trascorso la sua infanzia prima di emigrare in America. Ed è qui, tra le sue vie sovraffollate e caotiche, che continua a condurci, ancora oggi, con il suo Shosha, romanzo pubblicato sul finire degli anni Settanta e che riporta agli anni che precedono la seconda guerra mondiale.

Un affresco del mondo di ieri, immersione in un quartiere animato e rumoroso, dove la vita scorre tra panni stesi sui balconi, bagni rituali in cui di sera vanno «a immergersi le matrone» e acquisti alla Corte di Yanash, grande bazar che vende «di tutto: frutta, verdura, latticini, oche, pesce». Un luogo povero, fatto di vicoli dal fetore riconoscibile, «misto di olio bruciato, frutta marcia e fumo di camino», ma insieme familiare, casa tanto per rigide famiglie chassidiche che per malavitosi, da Itche il cieco o alla procacciatrice di servette Reitzele. Un romanzo che ha come centro proprio quello che è stato il quartiere ebraico di Varsavia e che sarà, durante l’occupazione nazista, parte del ghetto; che ne ricostruisce l’anima prima della fine, ne evoca i profumi, i rumori, le abitudini e che lo fa, nel testo originale e per scelta dell’autore, nella lingua del popolo semplice: lo yiddish.

E Singer ci guida, qui, in un viaggio lungo circa trent’anni: dalla Varsavia russa a quella polacca, fino al compiersi di un destino drammatico, con l’occupazione da parte dei nazisti e lo scorrere della Storia della prima metà del Novecento. A muoversi in questo mondo è Aaron Griedinger, protagonista che nelle prime pagine non è che un bambino: nato e cresciuto nel quartiere citato e figlio di un rabbino chassidico, a suo dire è stato educato «sulla base di tre lingue morte – l’ebraico, l’aramaico e lo yiddish – e di una cultura che si sviluppò a Babilonia: il Talmùd». Ne seguiamo i passi adolescenziali, sullo sfondo una Varsavia precedente alla prima guerra mondiale: in una routine scandita dai precetti religiosi, Aaron fa amicizia con una coetanea, colei a lui il romanzo è dedicato. Shosha è del quartiere, ma a causa di difficoltà nello studio e nell’apprendimento viene emarginata e derisa dagli altri bambini del cortile: un legame a due, quello tra Shosha e Arele (come lo chiama lei), fatto di giochi e affetto sincero, almeno fino a quando la Storia, come accennato, inizierà a irrompere nelle vite di tutti. La prima guerra mondiale, con la fame e le difficoltà che ne conseguono, sconvolge la routine, e la famiglia Griedinger è costretta, per motivi economici, a lasciare il quartiere.

Ma il Novecento non si ferma, e la Varsavia tra le due guerre che Singer affresca si fa città di scrittori, pseudo intellettuali, talvolta perdigiorno: un mondo in cui un produttore americano decide di finanziare un dramma in yiddish solo per permettere alla sua giovane e ambiziosa compagna di avere un ruolo da protagonista. Scritturato come autore, seguiamo Griedinger tra alti e bassi, in una Varsavia che, come le altre grandi città, diviene sempre più bella e di mondo, frequenta i teatri, i circoli per scrittori, i caffè. Una città che legge sui giornali dell’ascesa di Hitler ma che sembra, almeno per il momento, non preoccuparsene, quasi anestetizzata da un certo edonismo.

Un mondo, ancora, tratteggiato da Singer come a due velocità: festante e dinamico quello dei circoli per scrittori; fermo, uguale a se stesso, quello di via Krochmalna. Qui, «tutto era identico»: il bazar con lo scannatoio, i mendicanti, Shosha, sempre uguale anche dopo due decenni, né cresciuta né maturata. Un’iperbole, forse: simbolo di un passato rimasto, almeno fino a qui, intatto, di un mondo che è tradizione da conservare. «Una deficiente», come la definisce l’attrice Betty; un punto fermo, un tenero ricordo, amore, per il protagonista.

E mentre il progetto offensivo di Hitler si fa più concreto, comincia ad aleggiare il presentimento: un destino che i protagonisti paiono conoscere e attendere impotenti, come umilmente inginocchiati a un Onnipotente che «ha creato – come afferma lo stesso protagonista – la gatta e il topo». La gatta, per sua natura, «deve mangiare la carne. Non è colpa sua se uccide i topi»; e «certamente i topi non ne hanno colpa». Scioccante realismo con punta di humour ebraico.

Gli eventi si susseguono, il fiato dei nazisti sul collo, le strade invase da fascisti polacchi antisemiti e violenti. E nessuno, nonostante le irrealistiche speranze del lettore, che sembra voler scappare dal proprio paese…

Valentina Sala

Due consigli dal Flâneur:

 

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L'autore di questo articolo

Valentina Sala

È la “flâneuse” che non smette mai di flaneggiare (?): in continuo vagabondaggio tra luoghi (certo) e soprattutto nuovi progetti da realizzare, dirige il giornale in modo non proprio autoritario (!). Ideatrice e cofondatrice de Il Flâneur, non si accontenta di un solo lavoro. Giornalista, ufficio stampa culturale, insegnante di Comunicazione, indossa l’uno o l’altro cappello a seconda delle situazioni. Laureata in Editoria con il massimo dei voti, ama approfondire il rapporto tra città e letterati (sua, infatti, la tesi sulla Parigi di Émile Zola e la Vienna di Joseph Roth), i romanzi che raccontano un’epoca, i film di François Truffaut, le grandi città e, naturalmente, il viaggio flaneggiante, specie se a zonzo per le strade d’Europa. Per contattarla: valentina.sala@ilflaneur.com