LECCO – Un libro-intervista che parla di viaggi e di libri che hanno cambiato la vita a 19 grandi scrittori italiani, da Camilleri a La Capria, da Maraini a Tabucchi, da Gamberale a Mazzucco. Si tratta di Ogni viaggio è un romanzo, il volume presentato dallo stesso autore, lo scrittore Paolo Di Paolo, nella serata di martedì 24 marzo, presso Palazzo Falck, a Lecco. Un appuntamento, questo, parte del calendario di Leggermente 2015. Al termine dell’incontro abbiamo colto l’occasione per scambiare quattro chiacchiere con lo scrittore romano.
“Ogni viaggio è un romanzo” è, come per altri suoi libri, una raccolta di interviste. Come mai questa scelta?
Mi ha sempre affascinato l’idea di capire qualcosa degli altri attraverso il dialogo. Ovviamente, proprio perché volevo scrivere, una cosa che ho fatto prima di misurarmi con la scrittura è stata confrontarmi con chi scriveva, persone che avevano attraversato più soglie rispetto a me, che avrebbero potuto mostrarmi qualcosa a cui non avevo pensato. A parte una raccolta di racconti, i libri che mi hanno aiutato a costruirmi un percorso sono stati, infatti, i libri-intervista, da quello con Dacia Maraini all’intervista a Raffaele La Capria, passando per la chiacchierata con Antonio De Benedetti: è dialettica che diventa racconto. Purtroppo oggi tendiamo a scambiarci informazioni anziché dialogare: ritengo, invece, che il divagare senza tracce possa lasciare emergere sfumature inaspettate.
Si dice che alcuni libri facciano viaggiare senza un reale spostamento. Gli scrittori che ha intervistato le hanno raccontato di viaggi fondamentali per la loro formazione, di mete esotiche e città europee. Nell’ascoltare questi racconti può dire di aver viaggiato insieme a loro?
In molti casi sì, perché si trattava di luoghi che non avevo mai sfiorato. Quando qualcuno ti racconta un viaggio e se il racconto è efficace, allora tu viaggi con lui, esattamente come accade con i libri. Ci sono grandi autori che, pur non avendo viaggiato, sono riusciti a evocare luoghi: non è necessariamente l’esperienza diretta che suggestiona, emoziona. Il cinema o la televisione ne sono la prova.
Durante la preparazione di questo libro, c’è stato un autore con cui è entrato in una particolare sintonia, per esperienze o formazione?
Più volte mi sono rispecchiato in certe emozioni che mi raccontavano: sapere che Affinati, da giovane, ha viaggiato in America sulle tracce di Hemingway mi ha fatto sentire meno solo. Anche io, infatti, ho vissuto esperienze simili: a vent’anni, per fare un esempio, ero a Torino in cerca dei luoghi di Calvino o di Lalla Romano…
Nel suo libro ci sono autori che più volte citano lo spaesamento, talvolta causato dal viaggio. Le è mai capitato di provare questa sensazione?
Sì, mi capita spesso, soprattutto quando viaggio da solo, anche in posti non propriamente esotici. Questo perché il viaggio individuale ti catapulta in piccole incombenze pratiche, che in coppia o in gruppo attenui. Sono momenti in cui ti senti straniero, in cui non hai un orizzonte di abitudine in grado di darti sicurezza. Personalmente ho avuto più volte l’esperienza di perdermi: anni fa mi è capitato a Torino, un’altra volta a Parigi, ma si tratta sempre di esperienze produttive, che danno una vertigine positiva e stimolante.
C’è chi viaggia in città, magari sulle tracce di altri grandi scrittori, come Giuseppe Culicchia nella Berlino di Döblin o Rossana Campo nella Parigi della generazione perduta. Oppure c’è chi va in cerca di mete più esotiche e misteriose, come nel caso di Chiara Gamberale ed Emanuele Trevi, o di Melania G. Mazzucco. Lei da che parte sta?
Fino ad ora non ho fatto viaggi fuori dall’Europa, eccezion fatta per New York. Se devo dire la verità sono molto affascinato dalla grande città: è come se fosse una foresta di segni. Sarà perché vivo in una città come Roma, ma se mi trovo in un luogo piccolo, pur affascinante, sento che mi manca il movimento, la gente della metropoli.
A questo proposito, nell’introduzione del suo libro lei stesso cita Claudio Magris, dicendo che una città è “lo sguardo che la osserva e l’animo che la vive”. «Può contare di più – scrive poi nel libro – la pioggia sui vetri di un ufficio che l’itinerario suggerito dall’agenzia turistica. Più il viavai in un caffè, un odore che ci assale camminando per strada, una musica, la luce di una lampada, un gradino». Sembrerebbe proprio un flâneur alla Benjamin…
Senza dubbio la figura del flâneur è stata una delle più suggestive per la mia formazione. È la flânerie, il camminare per le vie di una città fino a perdersi, come spinti dalla folla, dalla pioggia. Quello da cui molti fuggono, la massa umana che si sposta, mi affascina moltissimo. Volto anonimo, come direbbe Tabucchi, in una moltitudine di volti anonimi. È per me un senso profondo di libertà.
Rigiro a lei, per finire, una delle domande che ha fatto ai suoi intervistati: quali sono i libri o gli autori che hanno lasciato un segno o cambiato il suo modo di pensare?
Se da adolescente non avessi letto una parte de La Recherche non avrei provato a scrivere veramente. Poi alcuni libri di Tabucchi e Calvino. Persino i fumetti fanno parte della mia formazione e a volte sono stati più decisivi di grandi letture. Per concludere, due libri per me fondamentali sono due simboli del modernismo letterario: l’inizio de La Recherche e Mrs Dalloway di Virginia Woolf.
Daniele Frisco