Intervista a Mario Maffi, rabdomante delle “Città di memoria”

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LECCO – Si intitola Città di memoria – Viaggi nel passato e nel presente di sei metropoli ed è l’ultimo libro di Mario Maffi, per quarant’anni docente di Letteratura e Cultura angloamericana all’Università degli Studi di Milano e autore di numerosi volumi di storia urbana e culturale. Il saggio, presentato a Lecco nella mattina di venerdì 20 marzo alla presenza dell’autore e nell’ambito del festival Leggermente, prende in esame sei città che Maffi racconta seguendo percorsi alternativi non scontati, cercando di scoprire e recuperare le storie nascoste di alcuni quartieri densi di vicende a volte dimenticate o occultate, che hanno coinvolto intere comunità.

persone per maffi

Photo @ Greta Cogliati

E così l’autore ci guida nel Lower East Side di Manhattan, crogiolo di genti diverse – ebrei, irlandesi, italiani, tedeschi, portoricani, russi, ucraini, polacchi – e in continua metamorfosi, con quelle memorie sedimentate nel tessuto urbano che lo scrittore, attraverso il suo bastone da rabdomante, fa rivivere e riscoprire. E poi altri mondi affascinanti e poco conosciuti: dal French Quarter di una delle prime “città-mondo”, New Orleans, alla Parigi della Comune, dalle città operaie di Manchester e Salford al fiero e proletario East End londinese. Incuriositi dai numerosi spunti di riflessione presenti nel suo ultimo lavoro, abbiamo intervistato il professore: una conversazione su luoghi, contraddizioni, metodi di studio e trasformazioni in atto.

Professor Maffi, nel suo libro esplora le città alla ricerca di qualche cosa, di tracce, di storie da riportare a galla. Un approccio che, forse, si distingue da quello del flâneur, che si lascia trasportare da ciò che lo circonda e vaga senza una meta precisa. Nel suo ultimo lavoro si definisce più come un rabdomante…

Sì, perché il rabdomante è colui che va in cerca di qualcosa di preciso, non un passivo ricettore di sollecitazioni come un flâneur che si lascia guidare dalla città. Il rabdomante è un attivo ricercatore: che trovi o meno l’acqua o che i bastoncini servano effettivamente è un altro discorso. Di certo, però, sa che cosa cerca. In definitiva è quasi uno stalker che tampina e insidia la città per obbligarla a parlare, a rivelare e svelare quello che racchiude. È quindi un po’ come forzare le casseforti e gli scrigni in modo anche ladresco.

Strumento indispensabile per il rabdomante sembrano essere le mappe. Nel libro ce ne sono diverse e molte altre vengono citate…

Sono sempre stato affascinato dalle mappe e credo che il loro uso sia fondamentale anche per stimolare l’immaginazione e per incominciare a entrare nel senso, nello spirito e nell’anima di un luogo, che sia una grande metropoli o il Mississippi.

Un fiume, quindi: ecco un altro elemento ricorrente nelle sue ricerche, sia se pensiamo a “Città di memoria” che ai suoi precedenti lavori…

Tutte le città analizzate sono città di fiume. New York con i fiumi Hudson e East River, New Orleans con il Mississippi, Parigi la Senna, Londra il Tamigi e Manchester e Salford con diversi corsi d’acqua. Il fiume è un’entità che ha molto a che vedere con il flusso di coscienza e con l’andare in giro a raccogliere informazioni, sia alla ricerca di suggestioni come un flâneur sia come un rabdomante che vuole cercare l’acqua sotterranea. Oltre a rappresentare lo scambio e l’elemento di origine delle prime comunità umane, il fiume fa quindi parte della storia delle città. Il rapporto città-fiume non è sicuramente secondario.

città di memoriaTra le sei città prese in considerazione New York sembra essere quella a cui è più legato…

Certamente. New York è una città che ha significato molto per me e, insieme a Londra, è quella a cui sono più affezionato e su cui ho lavorato di più. Il mio studio sulla città incomincia all’inizio degli anni Ottanta, periodo che per il Lower East Side è molto particolare. Dopo aver avuto negli anni precedenti il suo picco di espressività anche artistica, il quartiere era entrato nella sua fase decadente, che si sarebbe conclusa con l’inizio della speculazione violenta. Un fenomeno, questo, cominciato alla fine degli anni Ottanta e preparato da una serie di fenomeni molecolari: certi stabili e lotti di terreno abbandonati e l’emergere di fenomeni quali lo spaccio, contemporaneo all’apertura di alcune gallerie d’arte d’avanguardia. Il tutto è poi culminato con l’arrivo della grande speculazione, che rase al suolo interi edifici e aprì la strada a una gentrification che oggi lambisce la Avenue C.

Nel libro il Lower East Side a New York si affianca ai quartieri di altre città, come ad esempio l’East End di Londra o Belleville di Parigi. Che cosa li accomuna?

Sono quartieri originariamente popolari o di immigrati, con una vita fervida e interscambio culturale ma anche ricchi di contraddizioni enormi. Non bisogna romanticizzare eccessivamente il passato, nonostante questo si può certamente affermare che sono quartieri che hanno una storia di combattività, sia sul piano culturale che su quello sociale e politico. Un aspetto che si rischia di perdere sotto la spinta della speculazione edilizia. A questo proposito, dopo aver letto il libro una mia ex collega ha proposto come sottotitolo, citando Foucault, Sorvegliare e punire. Penso invece che un sottotitolo più indicato sarebbe potuto essere Ricorda con Rabbia alla Osborne, perché è proprio la memoria che è importante da mantenere. Una memoria arrabbiata, un passato che però è ancora presente. Nei quartieri analizzati persiste un braccio di ferro tra una memoria storica e collettiva e la tendenza alla dispersione e all’azzeramento di questa. Si tratta, in parte, di un fenomeno oggettivo, ma in alcuni casi è anche una vera e propria strategia di separazione delle comunità, soprattutto quelle considerate più problematiche.

Venendo al capitolo dedicato a Parigi, la capitale francese è una città ricca di stimoli, di tracce e di storie, soprattutto per un “rabdomante” come lei. Perché la sua attenzione si è concentrata proprio sulla Comune?

Da un lato per una passione e un interesse personale e politico, dall’altro perché si tratta di un episodio enorme, che coinvolse tutta la città e che, forse, è ancora poco conosciuto. Molti turisti visitano, infatti, la Basilica del Sacro Cuore di Montmartre senza conoscerne i retroscena, senza sapere che è stata costruita per ringraziare Dio dello scampato pericolo della Comune. È interessante, poi, notare come a un evento di una tale portata non sia dedicato nemmeno un museo a Parigi. Ci sono sì diversi materiali sparsi in alcuni musei grandi e piccoli, ma nessuno spazio interamente dedicato all’avvenimento storico.

Tornando alla gentrification che ha dettagliatamente analizzato nel suo libro e che sta riguardando tutte le realtà prese in considerazione. Cosa pensa del turismo di massa che sta cambiando il French Quarter di New Orleans?

Tutti i casi di cui parlo nel libro sono alle prese, in maniera altalenante, con una gentrification. Il French Quarter risente sicuramente delle devastazioni dell’uragano Katrina, che, pur non toccandolo direttamente, ha prodotto una serie di importanti trasformazioni. Si può affermare, ad esempio, che l’uragano sia stato sfruttato per modificare la presenza di diverse comunità all’interno della città. Pare infatti che circa 300 mila persone di quelle espulse dalla città all’epoca di Katrina non siano mai più tornate a New Orleans. Si tratta nella stragrande maggioranza di gente di basso reddito o di nessun reddito, che rappresentano sicuramente i dispersi e gli invisibili dell’America di oggi. Tra i quartieri delle altre città analizzate devo dire che il Lower East Side di Manhattan e l’East End di Londra, nonostante la speculazione edilizia, continuano a mantenere alcune caratteristiche originarie, di cui sono gelosamente custodi.

Più volte cita interventi urbanistici e architettonici che stanno trasformando o in alcuni casi distruggendo la memoria di intere comunità. Un esempio possono essere i Docks di Londra. La domanda che viene spontanea leggendo i suoi saggi è se esistano situazioni in cui gli interventi architettonici e i cambiamenti urbanistici possano portare a risultati positivi per la città…

Bisogna comprendere che è sempre un braccio di ferro, un ricorda con rabbia, e che la valutazione che si può dare a questi fenomeni può appartenere più al giudizio politico del singolo. È indubbio comunque che qualunque trasformazione implica anche uno scontro, un travaglio e la sofferenza di comunità che vengono espulse. È un braccio di ferro, appunto.

photo @ Greta Cogliati

photo @ Greta Cogliati

Per restare in tema, non può che venire in mente la situazione attuale di Milano, dove interi quartieri, un esempio è Isola, stanno cambiando volto. Cosa ne pensa?

Le operazioni che sono state fatte sono veramente devastanti. L’Isola aveva una dimensione comunitaria molto forte, pur con tutte le contraddizioni che una zona povera contiene, come la delinquenza. Era un quartiere con appartamenti collegati l’uno con l’altro e con uno stile di vita collettivo, oggi completamente perso. Da notare, inoltre, come neppure i fascisti, negli anni Venti, siano riusciti a entrare in questa parte di Milano. Le trasformazioni degli ultimi tempi ne hanno modificato completamente le caratteristiche anche dal punto di vista fisico. Si è andati, infatti, da un quartiere di case relativamente basse a un luogo in cui si percepisce la continua presenza di enormi casamenti cubici, privi di alcuna fantasia. Degli edifici che i vecchi abitanti del quartiere non possono sicuramente permettersi di abitare e che tolgono la luce alle poche case basse rimaste.

Un giudizio totalmente negativo, quindi. Ma attorno a queste costruzioni non si possono creare anche nuovi luoghi d’incontro? Si può pensare, per esempio, a piazza Gae Aulenti…

Secondo me è fittizio questo carattere di luogo di ritrovo della piazza. Ci si reca lì solamente per guardare dal basso in alto il grattacelo, per andare a mangiare da Feltrinelli o per visitare le boutique. Tutto questo non è vivere un luogo: è andare a visitare una vetrina di un luogo, a mio parere, anonimo, in quanto la differenza non la fa la quantità di gente che ci va, pur decine di migliaia, bensì il senso di comunità che si è perso.

Comunque, al di là della storia particolare, credo che ci sia un filo che unisce tutte queste città. Si tratta di realtà che hanno una memoria storica importante, che ogni tanto affiora, altre volte viene soffocata e deve essere scoperta, indagata, riportata alla luce. Esattamente come fa un rabdomante.

 Daniele Frisco

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L'autore di questo articolo

Daniele Frisco

È il flâneur numero uno, ideatore e cofondatore del giornale. Seduto ai tavolini di un qualche bar parigino, lo immaginiamo immerso nei suoi amati libri, che colleziona senza sosta e che non sa più dove mettere. Appassionato di Storia e, in particolare, di Storia culturale, è un inarrestabile studente (!): tutto è per lui materia da conoscere e approfondire. Laurea? Quale se non Storia del mondo contemporaneo?! Tesi? Un malloppo sul multiculturalismo di Sarajevo nella letteratura, che gli è valso la lode. Travolto da un vortice di lavori – giornalista, insegnante di Storia, consulente storico e istruttore del Basket Lecco – tra una corsa di qua e una di là ama perdersi nel folk-rock americano, nei film di Martin Scorsese e di Woody Allen, nella letteratura mitteleuropea e, da perfetto flâneur, nelle strade della cara e vecchia Europa. Per contattarlo: daniele.frisco@ilflaneur.com