Quando un romanzo riesce a unire una narrazione potente ed avvincente con le storie di un disco altrettanto letterario e affascinante, come nello specifico “Nebraska” di Bruce Springsteen, ecco che allora scatta il capolavoro totale ed assoluto: “Giù nella valle” di Paolo Cognetti rientra a pieno titolo in questa categoria. A partire dal titolo, “Giù nella valle” richiama diverse canzoni di Springsteen, creando fin dalle prime pagine un evidente parallelismo tra i personaggi di Cognetti e quelli del Boss. Anzitutto c’è The river nel titolo del romanzo con l’indimenticabile incipit “I come from down in the valley…”, ma soprattutto ci sono i pezzi forti di “Nebraska”, album del 1982 acustico, scarno e cupo quanto basta ma che ha segnato un prima e un dopo nella musica folk-rock americana e non solo.
Molti sono i riferimenti springsteeniani all’interno del nuovo libro di Cognetti, a cominciare dai fuggitivi della title-track Nebraska che fanno capolino nelle prime pagine del romanzo sotto le sembianze di cani e che, come i protagonisti della canzone di Springsteen, uccidono dieci vittime innocenti (“Me and her went for a ride sir and ten innocent people died”). Si prosegue quindi con la malinconica Mansion on the hill, indirettamente citata dallo scrittore de “Le otto montagne” quando il protagonista Luigi ricorda i momenti in cui assieme al padre usciva in macchina per andare a vedere le ville illuminate dei ricchi villeggianti arrivati in valle per le ferie o le vacanze (“At night my daddy’d take me and we’d ride through the streets of a town so silent and still, park on a back road along the highway side, look up at the mansion on the hill”). L’iconica Johnny 99 balza inevitabilmente all’occhio del lettore più attento quando viene raccontato da un tizio chiamato neanche a farlo apposta Johnny che Alfredo, fratello di Luigi e secondo protagonista del romanzo, si porta dietro dalla notte dei tempi il soprannome di 1800, un nomignolo che come per il Johnny cantato da Springsteen corrisponde a un numero (“Prison for ninety-eight and a year, and we’ll call it even Johnny 99”). Sempre legato alla figura di Alfredo, c’è da annotare anche il ribaltamento di prospettiva relativamente al brano State trooper: durante la fuga dal fratello in forza al corpo forestale dello Stato, Alfredo invoca Luigi di fermarlo, mentre per il fuggitivo di Springsteen succedeva l’esatto opposto (“Mister state trooper, please don’t stop me”). Un po’ più azzardato e forzato appare invece l’accostamento fra Used cars e il Fantic bianco senza targa usato da Alfredo per la fuga dopo l’omicidio (“Now mister the day the lottery I win I ain’t ever gonna ride in no used car again”), così come quello fra il clima di degrado misto a malavita di Atlantic city nel disco di Springsteen e l’assenza di prospettive, lavoro o altre attività diverse dal bere o dall’attaccar lite tipico dei tanti boscaioli ritratti nel romanzo di Cognetti (“Down on the boardwalk they’re gettin’ ready for a fight, gonna see what them racket boys can do… Now I been lookin’ for a job but it’s hard to find, down here it’s just winners and losers and don’t get caught on the wrong side of that line”).
A completare il quadro delle canzoni di “Nebraska” presenti nella nuova opera di Paolo Cognetti mancano però ancora i due brani più rappresentativi, prepotenti e definitivi, che da soli sostengono tutta l’impalcatura del romanzo: Highway patrolman e My father’s house. La vicenda dei fratelli Joe e Frankie Roberts, che compare inevitabilmente in tantissime pagine di “Giù nella valle”, viene traslitterata dal Michigan alla Valsesia, mantenendo tuttavia intatte le caratteristiche salienti dei protagonisti: il fratello buono Luigi, membro della Polizia Forestale, che fa il paio al Joe Roberts highway patrolman di Springsteen (“My name is Joe Roberts, I work for the State, I’m a sergeant out on Perenville, barracks number eight”); il fratello cattivo Alfredo, emigrato in Canada che torna al paese natale e compie subito un omicidio, alter ego di Frankie Roberts nella narrazione springsteeniana (“There was a kid on the floor lookin’ bad, bleedin’ hard from his head, there was a girl cryin’ at a table, it was Frankie, she said”); infine Elisabetta detta Betta, barista e mogie di Luigi che un tempo lontano era stata corteggiata e invitata a ballare da Alfredo, come avviene pure per la Maria cantata dal Boss al centro delle vite dei fratelli Roberts (“Yeah, me and Frankie laughin’ and drinkin’, nothin’ feels better than blood on blood, takin’ turns dancin’ with Maria”). Sempre legate alle traversie dei due fratelli, compaiono anche l’elemento del legame familiare che travalica e quasi giustifica ogni comportamento (“But sometimes when it’s your brother you look the other way”), così come quello della fuga e dell’inseguimento tra i due fratelli, con Luigi che, saputo dell’omicidio compiuto da Alfredo, lo insegue a sirene spiegate finché – con un sospiro di sollievo da fratello più che da tutore della legge – lo vede scomparire in sella alla sua moto nell’oscurità del bosco: come Joe Roberts suggerisce a Frankie di scappare oltre il confine canadese distante solo cinque miglia (“Well, I chased him through them county roads, ‘til the sign said, “Canadian border five miles from here”, pulled over to the south out the highway, watched the taillights disappear”), così Luigi si sente sollevato dal non dover fermare il fratello nonostante questo cozzi contro quella legge che lui stesso rappresenta e contro il fatto che un uomo che volta le spalle alla propria famiglia è un poco di buono (“I catch him when he’s strayin’ like any brother should, man turns his back on his family, he ain’t no good”).
Per concludere la carrellata di citazioni springsteeniane presenti nella nuova opera letteraria di Cognetti, non poteva mancare My father’s house, ovvero quella casa paterna attorno alla quale ruota buona parte della vicenda che riguarda i fratelli Luigi e Alfredo e che viene mirabilmente descritta all’inizio del capitolo “Oh casa del padre mio”, evidenziando un altro tema tipicamente springsteeniano come il difficile rapporto fra padre e figlio cantato per una vita da Bruce in varie canzoni (Adam raised a Cain, Independence day e, per l’appunto, My father’s house). A pagina 95 la penna di Cognetti si fonde completamente con la traduzione letteraria del testo di Springsteen, creando per ogni fan del Boss un cortocircuito emozionale nel quale non si riesce più a distinguere se stia scrivendo Cognetti o cantando Springsteen: “Last night I dreamed that I was a child, out where the pines grow wild and tall, I was trying to make it home through the forest before the darkness falls… I heard the wind rustling through the trees and ghostly voices rose from the fields, I ran with my heart pounding down that broken path with the devil snappin’ at my heels…”. La casa del padre, costruita fra i boschi al limitare del paese e ora minacciata dalla costruzione di una nuova pista da sci, torna prepotente anche nel finale del romanzo, quando tutta la narrazione prende forma compiuta e i versi finali della canzone di Springsteen (“My father’s house shines hard and bright, It stands like a beacon calling me in the night, calling and calling, so cold and alone, shining `cross this dark highway where our sins lie unatoned”) coincidono addirittura con le ultime parole di Cognetti: “Era come la casa di mio padre nel sogno, alta, bella, luminosa. La salvezza verso cui correvo. L’ho guardata dal parabrezza e la casa di mio padre sfolgorava su questa valle buia, dove i nostri peccati giacciono, inespiati”.
“Giù nella valle” sta a Cognetti come “Nebraska” sta a Springsteen: non è una semplice proporzione, dal momento che è lo stesso autore a spigarlo per bene nelle note conclusive del libro, ma il parallelismo di fondo fra le due opere appare evidente a ogni fan di Springsteen che si rispetti. “Giù nella valle” è sicuramente un libro consigliato a tutti i fans del rocker americano, ma risulta godibile e avvincente anche per tutti coloro che hanno a cuore i destini delle Terre Alte, dei piccoli paesi di montagna e della loro sopravvivenza in relazione allo sfruttamento intensivo e spesso lucroso del loro territorio per interessi economico-turistici, come la costruzione della pista da sci palesata nel romanzo di Paolo Cognetti: quanti alberi dovranno ancora essere abbattuti per far spazio a una nuova pista da sci che attragga turisti e dia un margine di respiro all’economia del piccolo paese di montagna? E quante persone saranno disposte a battersi affinché questo non avvenga, in nome della salvaguardia di un territorio fragile e troppo amato per essere dato in pasto alla mercificazione del turismo tipico dei nostri giorni? Domande complesse per questioni complesse, apparentemente senza un finale positivo, tanto che anche Luigi sembra piegarsi al volere del progresso che porta lavoro e occupazione anche nella sua valle. L’unica Reason to believe alla quale aggrapparsi, quel filo di speranza che Springsteen concede ai suoi protagonisti al termine del viaggio oscuro e tenebroso di “Nebraska”, è affidata da Cognetti a “La battaglia degli alberi” posta in conclusione del romanzo, un’ipotetica ballata da far cantare magari a un menestrello armato soltanto di chitarra acustica e armonica a bocca, un cantastorie che guida nel buio della notte e osserva sconsolato dal proprio parabrezza quanta “meanness” ci sia ancora in questo mondo, affermando convintamente che “se c’è del male su questa terra è solo roba nostra”.
Matteo Manente