LECCO – La si può ammirare nella cucina di Villa Manzoni, proprio accanto alla culla del grande scrittore. Si tratta di Manzoni in Blue Jeans, l’ultima opera di Afran, artista camerunense da diversi anni residente a Barzio. Nata dalla volontà della casa editrice Teka Edizioni di far conoscere a Lecco, oltre alla street art, anche un’altra parte della produzione artistica di Afran, l’opera rappresenta un busto di Alessandro Manzoni realizzato interamente con tessuto denim.
Conosciuto nel capoluogo lariano principalmente per i suoi murales, Afran ha collaborato con la casa editrice anche per le illustrazioni del libro Il giorno in cui Alessandro se ne andò da piazza *** di Stefano Motta e negli ultimi anni sta esponendo in diverse gallerie e città italiane e internazionali, dalla Triennale di Milano a Pitti Uomo a Firenze, da New York e Chicago.
Noi del Flâneur lo abbiamo incontrato per parlare della sua arte e della sua ultima opera, esposta a Villa Manzoni fino al primo novembre e che in breve tempo sta diventando vero e proprio simbolo di Lecco città dei Promessi Sposi 2016.
«Sono un artista che parte dalla street art e che oggi ha l’opportunità di esporre anche in gallerie, ma che non ha perso lo spirito dei suoi esordi». Queste le parole manifesto con le quali Afran decide di presentarsi. L’attaccamento alle origini di artista di strada e la coerenza sono, infatti, alcuni dei capisaldi di tutta la sua produzione artistica, anche se caratterizzata da tecniche diverse. «Nelle mie opere – prosegue l’artista – ho sempre avuto l’ossessione di cercare il rapporto con l’uomo. Ad esempio, quando pensavo alle mie sculture me le immaginavo in marmo o in bronzo, ma poi ho capito che in questo modo sarebbero state automaticamente catalogate come opere d’arte e non avrebbero sorpreso nessuno. Per questo ho deciso di ricercare materiali nuovi, che potessero provocare delle riflessioni e che facessero parte della vita quotidiana delle persone. È così che sono arrivato a utilizzare il jeans, un indumento che tutti noi abbiamo in casa e che ha la capacità di apparire sempre giovane, nonostante abbia una storia molto lunga. Questa è stata una scelta ideale per raccontare il mondo contemporaneo con tutti i suoi paradossi e soprattutto per rappresentare quella che definisco l’identità esterna, ossia ciò che l’uomo sceglie di far vedere agli altri: il vestito, in particolare il jeans, ne sono una metafora».
Hai iniziato la ricerca sul jeans nell’ultima parte della tua carriera. Quali erano le caratteristiche della tua produzione precedente?
«Prima la mia arte era più figurativa. Mi occupavo, come detto, di street art e di murales. I murales sono opere d’arte che non sono chiuse nelle gallerie: tutti le possono vedere e interpretare. Potremmo dire che sono la tecnica più democratica. Ho studiato in Camerun e il primo spazio dove potevo esprimermi liberamente sono stati proprio i muri della mia città, che per un giovane artista è forse la soluzione più immediata e meno difficile per dare sfogo alla propria arte. Poi, nel 2009, sono arrivato in Europa e in Italia, dove per un po’ di tempo sono andato avanti con la street art e in seguito mi sono concentrato su altri progetti, come appunto le sculture di jeans».
Quindi il jeans perché alla portata di tutti?
«La ragione fondamentale della scelta del materiale è assolutamente quella di voler sottolineare un paradosso, uno spaesamento. Paradosso, perché l’arte a volte viene intesa come prodotto di élite, riservato a una piccola nicchia di intenditori, mentre il denim è popolare, giovane e democratico. Un modo, insomma, per togliere l’arte dal museo e per metterla alla portata di tutti. Ho quindi iniziato a portare avanti una poetica del paradosso anche nella scelta dei soggetti da rappresentare, realizzando con la stessa tecnica delle divinità e delle maschere tradizionali africane, per dare loro una vita anche nella modernità. Condivido, infatti, il famoso detto spagnolo: renovarse o morir».
Bisogna, seguendo la tua visione delle cose, trovare un nuovo modo per comunicare anche i classici della cultura, per non perderli del tutto. Da qui la tua opera su Manzoni e, soprattutto, la scelta di collaborare con Teka Edizioni, che sembra condividere questa linea di pensiero…
«Sì, devo dire che il mio rapporto con Teka può essere definito un matrimonio perfetto. La sua opera e quella di Stefano Motta sul Manzoni e sulla valorizzazione del territorio è fatta con la mia stessa filosofia di attualizzazione della cultura tradizionale. Per quanto riguarda la scultura di Manzoni ho lavorato come se stessi riproducendo una divinità, perché considero quello che lo scrittore ha fatto per la lingua e la cultura italiana una cosa simile al sacro. Ma voglio celebrarlo attualizzandolo».
In conclusione, hai qualche nuova opera in cantiere?
«Negli ultimi mesi mi sono concentrato, sempre con la tecnica del jeans, su alcuni nudi che hanno fatto la storia dell’arte. Anche questi lavori portano avanti lo spirito del paradosso: innanzitutto realizzo dei nudi con i vestiti, cosa che può sicuramente spiazzare, e poi intendo sottolineare il concetto di nudità nella contemporaneità. A mio parere oggi la nudità, intesa come un luogo di estrema intimità dove siamo veramente noi stessi, non esiste più, a causa della volontà di archiviare tutto e di volerlo condividere sempre con gli altri attraverso i social network. Dalle foto in famiglia alle nostre esperienze di vita, tutto viene fatto con lo scopo di comunicare qualcosa a qualcun altro e non si è mai veramente se stessi. Non si è mai veramente nudi».
Per accompagnare l’opera Manzoni in Blue Jeans di Afran Teka Edizioni ha anche realizzato Manzoni Notebook, un taccuino con alcuni testi di Stefano Motta che in modo ironico mettono in relazione i Promessi Sposi e Alessandro Manzoni con i blue jeans (in vendita al prezzo di 5 euro). Il tutto per confermare la sfida alla base del progetto che, come scritto dallo stesso Stefano Motta, è stata quella di «non aver abbassato Manzoni al livello del blue jeans, ma aver innalzato il denim a livello della grande letteratura».