LECCO – Si è concluso ieri, martedì 27 maggio, presso la sala conferenze di Palazzo Falk il ciclo di incontri dedicati al tema della Donna, protagonista e creatrice di opere d’arte, promosso dall’Inner Wheel Club Lecco.
La figura femminile come soggetto d’arte e la figura femminile secondo lo sguardo dell’artista; la dimensione ambigua dell’immagine artistica e la discriminazione della donna come individuo; l’arte e il suo intrinseco potenziale di trasformare la persona, o il personaggio, in icona. Questi i principali nodi tematici di un incontro densissimo di spunti, che ha spaziato dalle manifestazioni più estreme del contemporaneo ai misteri nascosti dietro la classicità, solo in apparenza aproblematica, della Venere di Urbino.
La relatrice Laura Polo D’Ambrosio proietta uno dei famosi ritratti di Marilyn Monroe di Andy Warhol. Tutti lo riconoscono, ma forse solo in pochi notano l’evidente segno di uno sparo al centro dell’arcata sopracciliare della donna. Siamo nel 1964 e Dorothy Podber chiede a Warhol di poter fotografare (shoot, che in inglese significa fotografare, ma anche sparare) le sue Marilyn. Estrae una rivoltella e spara a quattro di essi. Ma che significato ha quello sparo? Quella Marilyn, ricavata da un fotogramma di Niagara ritagliato e poi reduplicato all’infinito, non è già più donna, bensì icona: un’icona che Warhol rende accessibile a tutti, come la Coca-Cola che ha lo stesso sapore per l’operaio e per il Presidente degli Stati Uniti, secondo il suo stesso paragone. Le sue Marilyn sono l’immaginario collettivo che si materializza, sono la summa del sex symbol, sono la bellezza e la sensualità, e poco hanno ormai a che vedere con l’individuo sofferente, ambiguo e tormentato che fu la donna Marilyn. Lo sparo di Dorothy sembra rendere esplicito tutto questo e denunciare, con clamore, la dimensione fittizia dell’arte. Oppure semplicemente giocarci nel modo sadico di un bambino che rivela un segreto.
Molto simile il caso di Mary Richardson, che dopo ore di ammirazione colpì con sette fendenti di pugnale Venere e Cupido di Velasquez conservata alla National Gallery: non la bellezza di Venere è la bellezza della donna contemporanea, quella bellezza che andrebbe celebrata. La bellezza di Venere è vuota, è icona, è semplice strumento d’arte. La bellezza della donna contemporanea è il coraggio della scelta, è la difesa dei propri diritti che Mary, suffragetta, sente come vertice della realizzazione del femminile. Non è l’arte (e la donna rappresentata in arte) il bersaglio polemico, bensì un concetto astratto e fine a se stesso che si può ammirare, ma che non si deve confondere con il reale.
Spiega la relatrice: «L’arte l’immagine di Narciso che si riflette nella fonte: se la si abbraccia, svanisce. L’opera d’arte è fatta solo per essere guardata, è di per se stessa immagine, distinta e diversa dalla realtà».
L’opera d’arte si riscatta da questa sua astrazione solo in un caso: nel caso in cui siano artiste donne a dipingere altre donne. Lì sì, emergono una delicatezza e un comune sentire che permettono di riconoscere nella figura femminile rappresentata non un’icona, ma la raffigurazione di una donna vera, che prova sentimenti ed elabora pensieri. Lì sì, la donna in arte cessa di essere decorazione raffinata, «creatura decorativa», come la definiva Baudelaire, e porta sulla tela il proprio essere, la propria vita.
Anche la discriminazione si gioca quindi non solo, o non tanto, sul piano della rappresentazione della donna-oggetto (anche se il celeberrimo Violon d’Ingres di Man Ray qualche dubbio lo lascia: una sensualissima schiena di donna con due segni grafici neri, ritratta in un’opera che s’intitola, però, “capriccio”, “passatempo” – questo il significato dell’espressione francese). La discriminazione si gioca piuttosto sulla selettività ancora profondamente maschilista del mondo dell’arte, che per molti secoli ha preferito lasciare spazio a uomini che ritraessero donne-icona, donne-musa, piuttosto che dare spazio e voce a donne che ritraessero donne, vere, individuali, persone.
Katia Angioletti