LECCO – Una mostra che racconta la pittura di paesaggio in Italia tra le due guerre e che riesce a ricostruire un’epoca, almeno per quanto riguarda uno stile pittorico che non è in linea con l’immaginario artistico di regime. Ma anche una mostra che illustra le diverse concezioni di questo paesaggio, confrontando le posizioni inconciliabili di chi prediligeva soggetti solamente sfiorati dalla presenza dell’uomo con quelle di chi solo all’interno del paesaggio urbano trovava, invece, la sua ispirazione artistica. E ancora un’esposizione che permette di viaggiare nell’arte del Novecento, cogliendo rimandi e riferimenti a periodi precedenti, e che ha come fulcro l’opera di un grande lecchese, Ennio Morlotti, e di quello che può essere definito il suo principale ispiratore da fine anni Trenta in poi: Giorgio Morandi. Tutto questo e molto altro è Natura e città. Morandi, Morlotti e il paesaggio italiano tra le due guerre, la mostra inaugurata sabato 17 gennaio a Palazzo delle Paure e che sarà visitabile fino al 3 di aprile.
Promossa dalla Fondazione della Provincia di Lecco Onlus in collaborazione con il Sistema Museale Urbano Lecchese, l’Associazione ex Alunni del Liceo Ginnasio “A. Manzoni” e il Liceo Classico e Linguistico “A. Manzoni”, l’esposizione è curata da Francesco Guzzetti, il cui intento è far rivivere ai visitatori quello che ha rappresentato la pittura di paesaggio in Italia negli anni Venti e Trenta. Anni tragicamente segnati dal regime fascista, ma nei quali si è riscoperto un filone artistico osteggiato dalle avanguardie di inizio Novecento, che lo vedevano come figlio di un mondo, quello ottocentesco, da dimenticare se non da distruggere.
Ed ecco susseguirsi le colline e i piccoli borghi di Carrà, Rosai e Morandi, i paesaggi di Carpi, Lega e De Pisis, i laghi di Lilloni e Marussig, ma anche la città vista da Sironi, Boccioni, Funi e Donghi, completamente diversa da quella ritratta da Birolli e Mafai. E naturalmente Morlotti, con due dipinti posti al termine di un percorso che intende anche ricostruire le ispirazioni del pittore nella sua ricerca paesaggistica. Dipinti, questi, che anticipano a livello temporale anche L’Adda a Imbersago, opera prestata per dieci anni dal Museo del Novecento di Milano.
Nomi importanti, quindi, per un percorso che inizia con una sala introduttiva composta da numerose opere che intendono fornire una sintesi della rappresentazione del paesaggio in Italia. Nella sala dialogano, infatti, protagonisti di diverse generazioni: da una parte c’è Emilio Gola (Meriggio, 1922) e dall’altra gli artisti che proprio tra le due guerre sembrano riscoprire il paesaggio, tra cui Carrà (Il Leccio, 1925 e Coreglia degli Antelminelli, 1925) e Rosai (Paesaggio, 1922). Un ritorno al passato per molti, soprattutto dopo la fine della spinta propulsiva di avanguardie come quella futurista, in difficoltà dopo la catastrofe della guerra mondiale. Si assiste quindi alla ricomparsa di modelli primitivi, uniti allo studio della lezione di Cezanne, importante per Carrà (Coreglia degli Antelminelli) come per lo stesso Morlotti, e alla ripresa dei “grandi vecchi” paesaggisti italiani, come l’ormai settantenne e di formazione ottocentesca Gola.
Quattro opere della stessa grandezza (70X90, tipico formato della pittura paesaggistica dal ‘700 in poi) sono invece le protagoniste della seconda sala, una sorta di passaggio tra il primo spazio dedicato alla natura e il terzo incentrato più sui panorami urbani. Sono opere di paesaggio tipiche del collezionismo privato, molto richieste all’epoca. Di particolare rilievo, qui, il Fondo valle di Arturo Tosi, pittore che può essere definito il vero e proprio “campione” della pittura lombarda di fine anni Venti, con paesaggi che diventano anche pezzi di arredamento molto ricercati.
Ed eccoci, ora, nella sala meglio riuscita di tutta l’esposizione. Dall’interno delle case dei ricchi milanesi si passa all’esterno, si guarda fuori dalla finestra. È infatti la città la tematica principale della sala, con le sue fabbriche, le case, i muri e i tram: un mondo totalmente diverso dai paesaggi naturali fino adesso ammirati. A colpire è sicuramente Paesaggio Urbano (1920) di Sironi. Dopo tante colline, laghi e verdi montagne ecco fabbriche, palazzi e camion: è la periferia milanese. L’opera, parte della serie dei paesaggi urbani ed esposta da Margherita Sarfatti nel 1920, rappresenta una periferia urbana che con le sue forme geometriche fa subito pensare allo sfondo di alcune opere di De Chirico. Non solo Sironi, però: accanto a Paesaggio Urbano e allo studio per un altro panorama cittadino dello stesso artista, ecco una serie di opere, a partire da Casa in costruzione di un Boccioni quasi divisionista in cui appare un carretto trainato da un cavallo e che stride con una casa in costruzione sullo sfondo. Simbolo, quest’ultima, dell’allargamento della città nella prima decade del Novecento. E poi le case e le fabbriche a Milano dipinte da Achille Funi e la Roma di Antonio Donghi. Tutto questo completamente diverso dalla città rappresentata da Birolli in Paesaggio in città (1930), dove appare una Milano che sembra un altro mondo rispetto a quello mostrato da Sironi. Dal grigio si passa, infatti, a colori più accesi e rosati e a una linea più esterofila, vicina ai fauves, completamente opposta alla pittura “ufficiale”.
Dipinti ispirati a modelli più internazionali e con autori che, anche per esperienze all’estero, portano novità nella rappresentazioni del paesaggio in Italia riempiono la penultima sala. Una sala, questa, definita dal curatore Guzzetti delle alternative. Le opere vanno, qui, da La strada di Zandomeneghi all’ibrido natura morta-paesaggio del Temporale di De Pisis, fino a Primavera in Valsassina di Dudreville. Senza dimenticare, poi, le due incisioni di Bartolini e Morandi, principali esponenti del periodo in Italia per quanto riguarda l’acquaforte.
E proprio Morandi è uno dei protagonisti dell’ultimo spazio della mostra. Il gran finale dell’esposizione è infatti affidato all’accoppiata Morandi-Morlotti. Due tele del pittore lecchese si confrontano e dialogano con altrettante del suo ispiratore, quello che tra tutti gli artisti paesaggisti italiani è forse il più originale. I due dipinti di Giorgio Morandi esposti raffigurano alcuni tra i più noti soggetti del pittore, come il cortile di via Fondazza (la sua casa a Bologna) e le vedute di Grizzana, meta prediletta dei soggiorni estivi dell’artista. Due diversi soggetti che raccontano due stagioni della pittura di Morandi: se la prima opera (del 1935) rivela un Morandi inaspettato, quasi espressionista, completamente diverso dai suoi lavori successivi, il paesaggio di Grizzana mette in luce la sua innovazione assoluta rispetto agli altri paesaggisti italiani. Questo grazie all’utilizzo del colore come costruzione spaziale, senza alcuna preoccupazione per le finzioni prospettiche. Ed è proprio l’utilizzo del colore a ispirare il più giovane Morlotti, che nel ’39 osserva i dipinti dell’artista bolognese a Milano (città ancora una volta centrale in questa mostra), presso la galleria del Milione di Brera.
Le due opere esposte, Sera e Collina, risentono dell’esperienza di Morandi sia nell’uso del colore che nell’assenza di prospettiva. Ispirazione che farà molto bene al pittore lecchese, perché, come spiegato anche dal curatore Guzzetti, «questa lezione permetterà a Morlotti di esprimere la sua arte migliore, quella dei paesaggi, e di abbandonare lentamente la sua contemporanea esperienza picassiana».
Daniele Frisco