Un passo indietro: gli scioperi del marzo 1944
Il 7 marzo 1944 anche le principali fabbriche lecchesi aderirono allo sciopero nazionale contro la guerra e il nazifascismo. Detto così può sembrare un fatto come un altro, ma nella primavera del 1944 ribellarsi al regime era una cosa al limite dell’impensabile, tali erano i rischi di ritorsione immediata che le truppe tedesche occupanti, insieme alle squadre fasciste, avrebbero potuto mettere in campo all’istante. Alcune avvisaglie di protesta si erano già registrate l’anno precedente, ma quella del marzo 1944 fu effettivamente la mobilitazione più grande e imponente effettuata sotto il regime di occupazione tedesca, preparata nei minimi dettagli nonostante le precauzioni e le intimidazioni predisposte da tedeschi e fascisti.
Tornando a Lecco, come in buona parte dell’Italia occupata, alle 10 di mattina del 7 marzo, al grido di “pane e pace”, più di un migliaio di operai delle principali fabbriche cittadine incrociarono le braccia al suono della sirena che segnalava la prova quotidiana dell’allarme aereo in vista dei possibili bombardamenti. Dalla “Badoni” alla “Rocco Bonaiti”, dalla “File” alle Acciaierie e Ferrerie “Arlenico” del Caleotto, in tutti gli stabilimenti lecchesi si attuò lo sciopero bianco: gli operai entrarono in fabbrica, rifiutandosi però di iniziare il turno di lavoro. Lo sciopero fu pressoché totale e coinvolse in breve tempo anche le industrie di minore importanza. Passate le due ore concordate, però, la protesta continuò soltanto alla “Rocco Bonaiti” di Castello, dove i lavoratori puntavano a intensificare l’azione per ottenere anche dei miglioramenti aziendali. La reazione nazifascista alla protesta fu immediata, brutale e violenta: come già avvenuto in molti altri casi, l’azione di repressione e arresto dei manifestanti fu affidata alle squadre fasciste, che arrivate da Como e armate di tutto punto, verso le 14 di quel 7 marzo 1944 fecero irruzione alla “Bonaiti”. Gli uomini comandati dal capitano Poncini, dopo aver radunato sul piazzale tutti i lavoratori e averli interrogati per sapere chi avesse organizzato le agitazioni, arrestarono 24 uomini e 5 donne.
Gli operai arrestati nelle fabbriche lecchesi furono rinchiusi nella palestra “Leopoldo Mariani” di Como per una settimana, finché il 14 marzo vennero trasportati con un treno prima a Lecco e poi a Bergamo; qui furono consegnati ai tedeschi, in attesa di essere caricati tre giorni più tardi su un treno merci con destinazione finale Mauthausen. Gli uomini arrivarono al campo nazista il 20 marzo e dopo una settimana di permanenza vennero trasferiti al distaccamento di Mauthausen-Gusen, con il compito di costruire Gusen II. Le operaie lecchesi, invece, restarono a Mauthausen solo tre giorni, poi trascorsero cinque giorni di carcere a Vienna e, infine, furono deportate ad Auschwitz.
Tra i lavoratori arrestati e deportati in seguito agli scioperi del 7 marzo 1944 ci fu anche l’allora non ancora diciottenne Giuseppe “Pino” Galbani, tra i pochissimi lecchesi sopravvissuti all’inferno del campo di Mauthausen-Gusen. Di seguito riportiamo la testimonianza integrale dell’intervento tenuto da Pino Galbani il 7 marzo 2013, di fronte a molti studenti delle scuole superiori, in occasione della manifestazione organizzata dal Comune di Lecco per ricordare il sacrificio dei lavoratori arrestati il 7 marzo 1944.
Pino Galbani, matricola 58881: sopravvissuto a Mauthausen-Gusen
«Raccontare agli studenti significa tenere viva la memoria, perché un popolo senza memoria non è degno d’avere un futuro. L’immagine più forte che mi porto dietro del lager e della prigionia è un cucchiaio di legno: non ho mai trovato le parole per esprimere la gioia di aver incontrato un altro prigioniero di Lecco all’interno del campo; si trattava di Guido Brugger e anche se non ci conoscevamo, abbiamo fatto subito qualcosa l’uno per l’altro e lui mi ha dato questo cucchiaio di legno per la minestra. È l’immagine più bella di quell’esperienza devastante!
A quell’epoca la Patria pretendeva di tutto, quindi venne indetto uno sciopero per chiedere la fine della guerra e un piccolo aumento salariale per far fronte alle spese per i generi di prima necessità, come pane e farina: la voce dello sciopero da attuare alle ore 10.00 al suono della sirena per le prove di allarme si sparse velocemente in tutte le fabbriche lecchesi. Alle 12 si concluse lo sciopero, ma alla Bonaiti i lavoratori giornalieri e quelli del secondo turno iniziavano alle 13.30, non alle 14.00: c’era in atto una discussione tra gli operai sullo sciopero mattutino, quando dal passo carraio in via Balicco entrano abusivamente le camicie nere arrivate da Como e obbligano gli operai a lasciare il lavoro; il questore Saletta voleva conoscere i nominativi di chi aveva deciso lo sciopero, ma di nomi non ce n’erano perché l’adesione fu volontaria e totale. Così gli scioperanti lecchesi vengono arrestati e passano otto giorni a Como, poi di nuovo a Lecco nello scantinato della biglietteria senza poter parlare con nessuno; da qui sono portati a Bergamo, dove avviene il baratto della vita degli operai tra fascisti e tedeschi: solo dieci operai vengono mandati a casa, gli altri rimangono a Bergamo in un’attesa che si fa sempre più stressante, prima del viaggio con destinazione ignota. La nostra destinazione era conosciuta solo dai tedeschi, perché erano convinti che nessuno di noi sarebbe tornato a raccontare quei massacri, gli eccidi, gli abusi e le privazioni. Solo i tedeschi sapevano che nessuno sarebbe tornato vivo: quando chiudevano i vagoni finiva la vita del deportato e iniziava soltanto la sua storia. L’esperienza del campo non si può raccontare perché non è vita: eravamo considerati al di sotto di un essere umano. Al deportato politico era vietato ogni aiuto, supporto morale o fisico; durante il viaggio, nei vagoni venivamo umiliati, costretti alla vergogna per la privazione di uno spazio per i bisogni fisici.
Arrivai a Mauthausen il 21 marzo 1944, ricordo ancora la paura provata nel piazzale dove dividevano gli uomini dalle donne, così come le voci strazianti per la divisione di intere famiglie, i neonati lanciati in aria dalle SS e poi calpestati con le suole degli stivali. Entrati nel campo, ci hanno lavati con il petrolio, rasati e denudati; poi ci hanno consegnato una divisa di tela a righe, un triangolo rosso e un numero con il quale siamo stati considerati e chiamati per tutta la durata della prigionia. Nel campo siamo stati cancellati dalla società, non eravamo esseri umani, ma larve umane denutrite in cerca di cibo, familiari o amici: tuttavia l’unica cosa che ricevevamo continuamente erano calci e pugni. Molti di noi trovarono la morte naturale, altri furono usati come cavie per esperimenti e iniezioni, oppure finirono nei forni crematori.
Riguardo ad alcuni fatti particolari della prigionia, ricordo la prima e l’ultima domenica di Pasqua, perché si lavorava solo mezza giornata e stavamo costruendo il campo di Gusen II: tuttavia per noi in quel giorno Cristo è morto ma non è risorto. Un’altra domenica di gioia nonostante il luogo colmo di dolore è stata quella in cui ho trovato un prigioniero sdraiato sul fianco: lo osservo meglio e scopro che è italiano e proveniente anche lui da Lecco. Si trattava di Guido Brugger e, anche se non lo conoscevo, ho provato una gioia immensa per aver trovato un altro lecchese: non mi vergogno di dire che ho pianto sulla sua spalla. Siccome lavorava in fabbrica, gli ho chiesto un cucchiaio per la zuppa, promettendo in cambio di fargli avere un po’ delle patate che riuscivo a rubare insieme ai miei compagni di baracca durante il lavoro all’aperto. Lui mi ha consegnato subito il suo cucchiaio ed è stato un punto di solidarietà umana altissimo.
Alla fine è arrivata la liberazione del campo, nonostante la forte angoscia provata in attesa di un momento che non arrivava mai. Le lacrime represse per troppo tempo sgorgarono, ma erano lacrime di dolore e non di gioia, perché ero rimasto solo, senza compagni lecchesi. Per un momento ho provato un sentimento di odio che sopprimeva il dolore e si tramutava in vendetta sanguinaria; è stata una crisi momentanea, poi mi son detto: no, nessuna vendetta! La gioia per essere sopravvissuto doveva bastare per tutto il dolore subito e la violenza sofferta. Dopo un mese e mezzo dalla liberazione del campo, siamo rimpatriati. A Lecco torno il giorno di San Pietro e Paolo sopra un camion della Moto Guzzi; risaliamo Corso Matteotti e andiamo alla Badoni, anche se il proprietario in un primo momento non ci riconosce: è stato il mio rientro in una fabbrica da uomo libero dopo esser stato prelevato da prigioniero tredici mesi prima.
Tuttavia, la gioia per esser riuscito a tornare a casa fu presto lasciata da parte, perché la gente e i parenti dei compagni rimasti in Germania non capivano quello che ci era successo: così fino al 1995 siamo rimasti chiusi nel nostro dolore, senza più parlarne con nessuno. Solo la visione e lo scalpore del film girato dagli inglesi a Dachau ci ha spinto a tornare a parlare, a riprendere la testimonianza e gli incontri, soprattutto nelle scuole, per illustrare i fatti realmente avvenuti. A voi giovani, quindi, lascio in eredità la libertà conquistata, è vostra: godetevela e fatela rispettare, amatela e fatela amare, ma rispettate sempre anche i suoi confini. Vi auguro di ristrutturare il mondo con l’amicizia e parallelamente con la pace: solo quando i popoli impareranno a essere amici, potremo e potrete avere la pace».