LECCO – È stata tra gli ospiti più importanti di Agorà del Mediterraneo, la due giorni dedicata al Mare Nostrum organizzata dal Coe con la direzione scientifica di Chiara Zappa e che lo scorso giugno ha portato a Barzio giornalisti, attivisti e testimoni da paesi quali la Libia, la Turchia, l’Iraq e la Siria. Azra Nuhefendić, una delle più autorevoli giornaliste prima jugoslave e poi bosniache, ha partecipato e offerto il suo contributo sul tema dell’Islam bosniaco: un’occasione, per noi del Flâneur, per incontrarla e conversare con lei su diverse tematiche, dalle guerre degli anni Novanta alla situazione attuale, fino alle possibili prospettive future per la Bosnia Erzegovina.
Cominciamo con il tema del suo intervento: prima delle guerre jugoslave l’Islam bosniaco aveva caratteristiche particolari, possiamo dire fosse chiaramente europeo e sicuramente più laico rispetto ad altre parti del mondo. Ritiene che questa sua peculiarità sia sopravvissuta?
Oggi l’Islam bosniaco esiste ancora, anche se nel tempo ci sono stati tentativi di cambiarlo, soprattutto attraverso gli aiuti arrivati dai paesi islamici durante la guerra in Bosnia Erzegovina. Mentre l’Europa era totalmente assente, paesi come l’Arabia Saudita hanno inviato un sostegno essenziale, ma allo stesso hanno promosso l’apertura di nuove moschee, molto diverse dalla tradizione religiosa dell’area. C’è anche da dire che la guerra di Bosnia è stata principalmente contro i musulmani bosniaci ed è curioso come siano stati coloro che volevano spartisti il Paese a ricordare a noi musulmani bosniaci di essere dei musulmani. Durante la Jugoslavia socialista la religione era stata considerata solamente come una cosa privata, come d’altronde dovrebbe essere dappertutto. Il progetto della guerra, che non è scoppiata ma è stata costruita e preparata bene, è stato quello di liberarsi dai musulmani bosniaci. A questo proposito esiste una registrazione di un colloquio tra Tudjman e Milošević nel quale i due si domandavano cosa avrebbero dovuto fare, una volta divisa Mostar, con i musulmani. Tra le ipotesi registrate anche quella di gettarli nella Neretva, il fiume della città erzegovese. Ecco perché sottolineo ancora una volta come a noi musulmani bosniaci sia stato ricordato di essere musulmani: eravamo altro, diversi, e questo giustificava la nostra eliminazione con metodi che tutti conoscono, dalla pulizia etnica alla violenza sessuale nei confronti di donne che, una volta stuprate, avrebbero dato alla luce dei piccoli serbi. Detto questo e tornando alla domanda, bisogna sottolineare come nonostante alcuni tentativi – mi vengono in mente casi isolati che non hanno messo radici come il famoso villaggio integralista di Gronja Maoca o la costruzione di moschee wahabite sponsorizzate dall’Arabia Saudita – la maggior parte dei musulmani bosniaci non sia cambiata.
Crede che i casi citati possano essere considerati un piccolo campanello d’allarme?
Prima di tutto bisogna sottolineare che coloro che professano un Islam diverso non è detto che siano terroristi. Mi capita di leggere articoli di alcuni colleghi giornalisti italiani che parlano di presunti terroristi della porta accanto o di terroristi con gli occhi azzurri. La realtà è che si tratta di una costruzione, non ci sono stati casi di terroristi bosniaci kamikaze. Ci sono stati, e questo è vero, bosniaci che sono andati a combattere con l’Isis, ma in assoluto e in percentuale inferiori rispetto ad altri paesi europei. Questo anche perché la presenza internazionale in Bosnia Erzegovina è molto forte e riesce a monitorare simili fenomeni.
Una delle difficoltà del superamento del passato in Bosnia Erzegovina è dovuto al fatto che molte persone si siano trovate a tornare a vivere accanto ai carnefici di parenti e amici…
Questa è un’altra realtà drammatica della Bosnia Erzegovina. Secondo il tribunale dell’Aia, 17 mila persone comuni sono state coinvolte in crimini di guerra ed è impossibile che un numero così elevato di persone vada sotto processo, com’è invece capitato ai capi politici, quasi tutti in carcere. Sì, le vittime vivono accanto ai carnefici, ma c’è di più: coloro che tenevano le persone nei campi di concentramento sono in seguito diventati politici e oggi lavorano negli uffici pubblici, come nel caso della città di Prijedor. Come si sentirebbe nel ritirare la carta d’identità dalle mani di una persona che una ventina d’anni prima la maltrattava?
Ci sta dipingendo la Bosnia Erzegovina come uno stato diviso ancora dalle categorie emerse dopo le guerre degli anni Novanta. Questo è dovuto anche alla struttura degli accordi di Dayton?
Dayton ha fatto una cosa fondamentale: ha messo fine alla guerra. Per fortuna oggi non si muore più per le granate o per i cecchini e questo è molto importante. Ma oggi non si può più andare avanti in questo modo. Dayton non ha riconosciuto la Bosnia Erzegovina che esisteva prima della guerra, ha diviso un paese in due e consegnato la terra a coloro che hanno praticamente attuato la pulizia etnica dai non serbi e dai non croati.
Un po’ l’obiettivo della guerra…
Esattamente. I nazionalismi serbo e croato hanno addestrato la gente comune a odiare i vicini musulmani. Si diceva: «loro non sono come noi, se tu non li attacchi domani vengono a violentare le nostre donne»…
Tornando all’attualità, il problema della Bosnia di oggi sembra essere la presenza di partiti etnici nati con la guerra e fortificati dopo Dayton…
Siamo in balia dei partiti etnici, siano essi musulmani, croati o serbi. I capi politici nazionalisti sono stati condannati e stanno scontando le pene, ma la loro politica è ancora molto viva.
Ci può essere una soluzione?
La soluzione ci sarebbe, ma oggi le forze nazionaliste sono così forti che purtroppo noi bosniaci non possiamo farcela da soli. Si pensi che dopo le ultime elezioni dell’autunno del 2018 non si è riusciti a formare un nuovo governo perché serbi e croati hanno fatto ostruzione. Un esempio è la forte opposizione dei serbi all’ingresso della Bosnia in Europa o nella Nato: una volta entrati in queste organizzazioni, sarebbe infatti impossibile cambiare i confini e fare le guerre. Esiste poi un terzo partner nel gioco e sono i russi, che durante le guerre in Jugoslavia erano deboli e seguivano le decisioni di altre potenze, mentre oggi sono molto presenti nei Balcani, anche con i capitali e soprattutto in Republika Srpska, uno stato ormai quasi etnicamente pulito dai non serbi.
In tutto questo che partita stanno giocando la Serbia e la Croazia?
La Serbia sta mediando tra i due mondi, Europa e Russia. È un atteggiamento problematico, anche perché le trattative più calde e importanti nei Balcani riguardano il Kosovo, di cui la Serbia fatica a riconoscere l’indipendenza. Una questione, questa, che rischia di coinvolgere ancora una volta la Bosnia: non sono rari i casi in cui, in sede di trattativa, riemerge l’idea nazionalista serba di accettare il Kosovo indipendente in cambio di metà della Bosnia. Una metà che, se ci pensiamo, è stato l’unico bottino delle cinque guerre degli anni Novanta. I nazionalisti croati, in tutto questo, reggono il gioco ai nazionalisti serbi.
Parliamo di Sarajevo. Una città unica, che nei secoli ha fatto convivere le maggiori religioni e da sempre simbolo di multiculturalismo e tolleranza. Oggi, almeno nella sua conformazione etnica, sembra molto cambiata…
La Sarajevo che esisteva prima dell’inizio della guerra e che ci piaceva tantissimo era una città multietnica, il fulcro musicale e cinematografico della Jugoslava, un centro culturale incredibile. E questo proprio grazie a quella mescolanza. Perché la Bosnia non è né serba né croata, né bosniaca musulmana. È tutte e tre insieme.
Alcuni potrebbero dire che la Bosnia è jugoslava…
No, questo non si può dire perché rappresenta un’arma in mano ai nazionalisti che possono affermare: «se non c’è più la Jugoslavia, non c’è ragione che ci sia la Bosnia indipendente». La Bosnia esiste da mille anni, molto prima della Jugoslavia. Quello che ci piaceva di Sarajevo e della Bosnia in generale era il prodotto di questo mix di culture, che è durato secoli e si è accentuato durante la Jugoslavia socialista. Con la Jugoslavia, la Bosnia è diventata un centro strategico per tutto il paese, punto di riferimento per l’industria militare nazionale: ad esempio, proprio a un’ora da Sarajevo, in una piccola città dove io ero solita recarmi per le vacanze estive, si trovava un gigantesco bunker (oggi un centro d’arte contemporanea) che avrebbe dovuto ospitare i capi politici jugoslavi in caso di un’aggressione da fuori. La cosa singolare è che per cinquant’anni la Jugoslavia si è preparata per difendersi da un’aggressione dall’esterno, mentre alla fine è implosa dall’interno.
Tornando a Sarajevo, la città è oggi al 90% musulmana, fatto che rappresenta un’altra arma nelle mani di coloro che dicono che i musulmani bosniaci siano dei fondamentalisti. Sarajevo è diventata quasi monoetnica non perché i sarajevesi abbiano cacciato gli altri, ma perché prima dello scoppio della guerra i nostri amici e colleghi di provenienza serba già sapevano quello che sarebbe accaduto e sono scappati, esattamente come avremmo fatto tutti. 40 mila serbi hanno lasciato Sarajevo prima della guerra, mentre circa 17 mila profughi musulmani sono arrivati in città da altre parti della Bosnia perché costretti a lasciare le loro case.
Dove si trovava allo scoppio della guerra?
Lavoravo per la televisione di Belgrado e come la maggior parte di noi pensavo fosse solo una seccatura e che tutto si sarebbe risolto in massimo una settimana. Ho preso due settimane di malattia e due di aspettativa e sono andata a Sarajevo, la mia città natale, ma con l’idea di tornare presto alla normalità. Purtroppo mi sono sbagliata e ho vissuto il primo mese di assedio. Un’esperienza che mai avrei immaginato di vivere.
Neppure i fatti della vicina Dubrovnik vi avevano allarmato?
Assolutamente no! Si telefonava agli amici coinvolti in quella guerra e si diceva loro di venire da noi per un po’ di giorni. Mia madre voleva addirittura trascorrere le vacanze del ‘92 sulla costa croata. Per fortuna l’ho convinta a non farlo, perché il posto in cui sarebbe voluta andare è stato anch’esso bombardato. La verità è che si tende sempre a non credere che simili cose stiano davvero accadendo, ma prima o poi bisogna farci i conti: coloro che per molto tempo hanno continuato a ripetersi «io non ho fatto nulla, sono una persona onesta, non mi succederà niente», purtroppo oggi non ci sono più.
Lavorando a Belgrado, si sarà sicuramente confrontata con i suoi conoscenti e colleghi serbi. Come hanno reagito?
Quando sono tornata a Belgrado mi sono trovata in una situazione simile a quella degli ebrei durante la seconda guerra mondiale. Gli amici hanno smesso di salutarmi, dopo un paio di mesi mi hanno cacciato dal lavoro, i vicini di casa hanno firmato una petizione per chiedere alla proprietaria di mandarmi via. Erano tutte cose che avevo letto nei libri ambientati negli anni Trenta e Quaranta, e che in quel momento provavo sulla mia pelle. Da un giorno all’altro ero diventa “turca”, come ci chiamavano loro. Ero diventata altra.
Daniele Frisco