LECCO – Sono gli “italiani sbagliati”, quelli che il fronte russo l’avevano già conosciuto nel ’14, quando gli altri italiani non immaginavano ancora che sarebbero presto entrati in guerra. È di loro, di quei più di centomila trentini e giuliani che durante il primo conflitto mondiale hanno combattuto nelle fila dell’Impero austroungarico, che parla Come cavalli che dormono in piedi, ultimo libro del giornalista e scrittore Paolo Rumiz, ospite a Lecco di Leggermente 2015. Sono uomini dimenticati dai manuali di storia e non ricordati nei sacrari ufficiali, caduti su un fronte poco studiato: quello che passa dalla Galizia austroungarica, oggi compresa tra Polonia e Ucraina.
Rumiz conduce i lettori in un viaggio che ripercorre quei luoghi e lo fa evocando battaglie, visitando meravigliosi cimiteri dell’impero dell’aquila bicipite, leggendo e ascoltando testimonianze, in alcuni tratti guidato da appassionati compagni di viaggio. Pagina dopo pagina veniamo catapultati nelle terre di un’Europa che non c’è più, fatta di villaggi ebraici e popolazioni senza più uno stato. Un mondo di ieri, per dirla alla Zweig, di cui rimangono solo le tracce: città ucraine e polacche simili tra loro e diverse per bandiera e lingua, locali e ristoranti che conservano lo spirito mitteleuropeo e «ferrovie mitiche, figlie del tempo in cui la bellezza era ancora al servizio della tecnica». Un libro che vuole preservare la memoria non solo dei triestini e dei trentini caduti, ma di tutti coloro che sono scomparsi in uno dei più terribili e assurdi conflitti che la storia dell’umanità ricordi.
Di questo e molto altro ha parlato lo scrittore triestino durante il suo intervento di venerdì 27 marzo, a Lecco. Una conferenza parte del calendario 2015 di Leggermente, al termine della quale abbiamo incontrato l’autore per un’intervista:
Il tema centrale del suo libro sembra essere la memoria e, ancora di più, la necessità di recuperarla. È evidente, infatti, l’esigenza di ricordare per riuscire a conoscere meglio chi sono gli italiani e gli europei di oggi. Nel libro si racconta degli italiani sbagliati, quelli che il fronte russo l’avevano incontrato già nel 1914, quelli del fronte orientale dimenticato, ma anche di un mondo che non c’è più, con i suoi treni che collegavano mezza Europa, le stazioni tutte simili tra loro e il suo multiculturalismo…
Noi viviamo da parecchi anni un vuoto di memoria sempre maggiore, questo perché si è estinta la comunicazione orale: i nonni non raccontano più le loro storie ai nipoti. Le cose più belle che ho sentito sulla guerra mondiale sono proprio quelle dei nipoti che evocano i loro vecchi. Bisogna quindi sanare una frattura, si è spalancato un vuoto che richiede una tecnica particolare per essere riempito. Si può dire che la memoria sparisca definitivamente non tanto quando muoiono i testimoni, bensì quando muoiono coloro che li hanno ascoltati.
Altro elemento interessante nel suo volume è la questione di Trieste. Maggiore porto dell’Impero, con l’annessione all’Italia la città ha perso la sua centralità in quanto, spiega nel suo libro, si dovevano privilegiare porti come Genova o Napoli. A distanza di anni, per quale motivo ancora oggi non si riesce, in un’Europa che si riapre all’Est, a far recuperare a Trieste un ruolo di centralità?
Oltre che per interessi esterni che contrastano un simile cambiamento, esiste anche un problema di identità: se non sai che cosa sei stato, difficilmente puoi sapere cosa vuoi fare da grande. C’è quindi una difficoltà dei triestini, che non sanno immaginarsi nel futuro, non capiscono verso cosa andare.
Una responsabilità diretta dei triestini, quindi?
Assolutamente sì, c’è una complicità. Senza dimenticare che esiste una classe politica che, visti gli eventi che hanno contraddistinto la città, ha pensato bene di campare sulle divisioni e di cercare i voti con i rancori e le ostilità etnico-religiose. Altro rischio è, poi, quello di giudicare il passato alla luce di oggi. Mi vien da ridere quando si vedono persone che rimpiangono un’Austria che non esiste più, imputando all’Italia colpe che prima del ‘14 sicuramente non aveva. È l’Italia dopo il ‘18 che ha deluso molti, anche tra coloro che l’avevano desiderata e bramata.
Lei definisce il mondo di cui parla nel libro come complesso e di difficile comprensione a una persona che oggi vive nell’Europa delle nazioni occidentali. Un universo multiculturale e multilinguistico, quindi, che però riusciva a stare insieme. Il rischio che corre oggi l’Europa è quello di aver paura della complessità e di essere guidata dai semplificatori?
Il nostro mondo, oggi, espelle la complessità, in quanto non siamo più in grado di reggerla. La guerra dei Balcani, ad esempio, non è stata una guerra tra etnie, ma tra coloro che non tolleravano un mondo plurale e coloro che, invece, ne erano gli eredi.
Sempre in riferimento ai fatti della ex Jugoslavia, durante il suo viaggio si trova in Ucraina proprio nei giorni più caldi della protesta di piazza Majdan. Si può fare un paragone tra la situazione degli anni Novanta nei Balcani e l’Ucraina di oggi?
Una delle occasioni perdute più gravi dell’Europa è stata quella di non aver imparato niente dalla questione balcanica, che ci metteva su un piatto d’argento in modo comprensibilissimo, forse per la prima e ultima volta, il grande meccanismo della disintegrazione etnica. Tu dai ai ladri e agli assassini un alibi nobile per fare quello che fanno: lo scontro etnico nobilita le peggiori cose e dà loro un significato religioso e patriottico. Le stesse cose si possono notare anche oggi in Ucraina.
Tornando al suo libro, perché i cimiteri austroungarici, in cui sono sepolti i morti della Grande Guerra e di cui è andato alla ricerca nel suo viaggio in Galizia, sono così diversi dai grandi sacrari dell’Europa occidentale?
Prima di tutto la differenza è di epoca. Oltre a essere di una bellezza sconvolgente, i piccoli cimiteri sono frutto dell’Impero e del mondo di ieri e, soprattutto, sono cimiteri ecumenici, dove il nemico non solo è ammesso, ma è onorato con lo stesso decoro e le stesse parole. C’è un abbraccio postumo commovente. Le nazioni vincitrici hanno invece imposto un modello di separazione, in quanto i cimiteri della Prima e anche della Seconda Guerra Mondiale mettono il nemico di fronte e contro ai vincitori. Già alla fine della Prima Guerra Mondiale si è infatti scelto di dare croci bianche ai vincitori e croci nere ai perdenti, perché aggressori e colpevoli.
In “Come cavalli che dormono in piedi” lei racconta che l’Europa precedente al ‘14 era forse più unita di quella di oggi, anche a livello di scambi e possibilità di spostamenti. Secondo lei per far nascere una vera Europa è tempo di creare una nuova memoria condivisa? E in che modo si può fare?
Cosa c’è di più condiviso di una strage in cui sono morti tutti? L’Unione Europea, però, non ha fatto niente per ricordarlo. Sono profondamente deluso e preoccupato per questa assenza, in un momento così importante e fondativo per l’Europa. La Prima Guerra Mondiale è sicuramente stato uno dei primi mattoni dell’Europa, sia nel senso di nausea della guerra, sia perché tanti popoli si sono conosciuti proprio al fronte, pur essendo nemici.
Altro elemento allo stesso tempo importante e unificante sembra essere il cibo. Si può pensare ad alcuni esempi tratti dal suo libro, come la cena mitteleuropea fatta a Leopoli, in Ucraina, o il picnic di Redipuglia con prodotti provenienti da tutti i fronti d’Europa, ma può venire in mente anche il cibo balcanico, molto simile in ogni zona della regione…
Il cibo è il principe dei canali di contaminazione e di incontro. Sulla tavola cose normalmente incompatibili trovano il loro spazio e la loro unità. Uno degli elementi su cui si misurava, ad esempio, la civiltà di Sarajevo era che in ogni casa c’era una pentola di coccio che non aveva mai toccato il maiale e che serviva per cucinare il cibo per ebrei e musulmani. Quella pignatta era il simbolo di un mondo infinitamente più tollerante e più aperto alle diversità del nostro. Quando c’è stato l’attentato a Charlie Hebdo, mi sono subito chiesto se i vecchi e vituperati imperi che hanno perso la guerra non si fossero rivelati molto più capaci di gestire le diversità e di impedirne lo scontro, rispetto alle nazioni vincitrici. Queste ultime aggravano i sintomi, anche per il loro passato colonialista: hanno la coda di paglia. La Francia, ad esempio, memore del suo passato coloniale, evita di imporre un certo ordine in alcune parti del Paese e questo, unito all’esperienza da colonizzati di tanti magrebini, fa sì che lo scontro sia inevitabile.
Vecchi imperi capaci di gestire la diversità. Crede ci sia il rischio di romanticizzare troppo il passato?
Non è difficile, perché l’oggi è talmente deprimente che il procedimento “mitico” è quasi fatale. Nonostante questo credo sia necessario stare molto attenti: rimpiangere e mitizzare esageratamente un mondo che non c’è più e che non può tornare può generare nuove memorie divise.
Daniele Frisco