La Turchia di Erdoğan. Un paese che secondo molti osservatori internazionali sta virando sempre di più verso un regime autoritario, che lascia poco margine alla libertà di stampa e di espressione e che però continua a essere uno stato complesso, dove molte parti della società civile sembrano non accettare una simile svolta. Ne abbiamo parlato con la giornalista turca Fazila Mat, corrispondente per la Turchia di Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa.
Partiamo dal fallito colpo di stato dell’estate del 2016. Come sono cambiate le cose in Turchia dal punto di vista della libertà di stampa?
Benché la situazione della stampa in Turchia sia sempre stata in un certo senso complessa, fatta di forte clientelismo e di una evidente concentrazione dei media, dopo il tentato golpe del 15 luglio 2016 abbiamo sicuramente assistito a un peggioramento senza precedenti: un cambiamento repentino, con tanto di dichiarazione dello stato di emergenza – durato due anni – ed emanazione di decreti che hanno determinato la chiusura di circa 150 mezzi di stampa come giornali, tv e riviste. 2.500 giornalisti sono rimasti disoccupati, tanti altri sono stati arrestati e finiti sotto processo. A luglio 2019 si contavano 150 giornalisti in carcere in Turchia: un dato in continuo mutamento, perché quotidianamente c’è chi viene scarcerato da un tribunale e dopo poco arrestato di nuovo. Oggi il panorama mediatico turco è controllato da sette società private legate al Governo per affari economici. Per fare un esempio: su dieci televisioni, nove sono controllate da queste società.
Esistono giornali non filogovernativi?
Esistono solo tre giornali cartacei a livello nazionale che non appoggiano l’attuale governo, ma devo dire che ci sono anche altre voci di dissenso. Questa fase di accerchiamento dei media è stata infatti accompagnata da una reazione parallela dei giornalisti rimasti senza lavoro. In risposta a un simile monopolio si è sviluppata una fitta rete di giornali online, che hanno raccolto i giornalisti disoccupati e hanno cominciato a pubblicare articoli critici nei confronti del governo. Certamente ci sono dei limiti anche per loro: non tutto è tollerato, esistono argomenti tabù (come la questione curda) e non sono stati rari gli interventi delle autorità finalizzati alla rimozione di inchieste su fondazioni legate al governo. Anche la rete, quindi, è soggetta alle restrizioni, una legge lo consente.
Veniamo all’opposizione civile rappresentata, ad esempio, da giovani, studenti universitari e intellettuali. Qualcosa si sta muovendo?
Certo, qualcosa si muove costantemente e l’abbiamo visto a livello di voti nelle ultime elezioni amministrative, dove nelle grandi città è emersa un’insofferenza a questa politica accerchiante del governo. In alcuni casi l’opposizione è partita dai giovani, ma si è trattato anche di un voto trasversale e che, nel caso di Istanbul, ha coinvolto anche elettori tipici del partito della Giustizia e dello Sviluppo, che hanno deciso di dare una chance al candidato della minoranza.
Quando si parla di libertà di espressione bisogna analizzare la libertà di espressione tout court. Anche gli accademici sono sotto attacco: ci sono centinaia di docenti universitari che sono sotto processo per aver firmato una petizione per la pace, e lo stesso vale per scrittori o fumettisti. Potremmo citare la rivista online Sendika 63, chiamata così perché chiusa ben 63 volte. Negli ultimi tempi sempre più persone – sia comuni che membri dell’intellighenzia – hanno cominciato a dimostrarsi stufe di autocensurarsi e, conoscendo bene i rischi, hanno iniziato a parlare e a esprimere le loro opinioni.
Un modello autoritario che ha una tradizione in Turchia?
Sicuramente veniamo da una storia particolare: la Turchia ha avuto tre colpi di stato e la presenza di militari che hanno messo in difficoltà le minoranze etniche e religiose. Un esempio sono i pogrom contro i greci di Istanbul, nella Turchia degli anni 50, o le repressioni dagli anni Ottanta in avanti contro le popolazioni curde del sud-est, un problema che purtroppo colpisce la Turchia ancora oggi.
Rimanendo in tema di minoranze, il clima che ci ha appena descritto sembra peggiorato negli ultimi anni…
Bisogna dire che all’inizio degli anni 2000 la situazione per le minoranze sembrava migliorare. Lo stesso Erdoğan aveva promesso di cambiare la situazione e di uscire dal tradizionale statalismo turco. Con questa impostazione si è fatto accettare da diversi settori del Paese, in modo trasversale: dai conservatori più religiosi ai liberali, fino ai curdi che credevano ci fosse una prospettiva di adesione all’Unione Europea. Una candidatura, questa, effettivamente arrivata nel 2005 e che ha portato a numerose riforme costituzionali e dei codici civile e penale. Avanzamenti concreti, insomma, con un sostegno popolare all’adesione che si aggirava intorno al 70%. Ma poi questo processo si è arenato, sia per responsabilità turche che dei paesi dell’Ue, in particolare le prese di posizione di Francia e Germania, che suggerivano una Turchia partner privilegiato e non membro a tutti gli effetti. Il fatto di sentirsi dire dopo anni di attesa «no guarda, forse non vi vogliamo più» non è stato un buon affare per l’immagine dell’Unione Europea in Turchia, anche se il sostegno all’adesione si aggira oggi intorno al 58% della popolazione.
Un’occasione per Erdoğan di abbandonare le riforme e il dialogo con le minoranze?
A livello interno il governo è riuscito a ridurre il potere sia dell’esercito che della burocrazia kemalista, e in questo modo il partito del presidente è diventato sempre più forte. Con il consenso in tasca, non erano più necessarie le aperture promesse all’inizio, finalizzate ad attirare le minoranze.
Tornando alla politica estera, oggi il governo turco sembra non guardare più all’Europa, bensì altrove…
Questo è vero, ma bisogna sottolineare come i rapporti economici della Turchia con l’Europa e l’Occidente siano ancora molto importanti e come a livello militare la Nato rimanga centrale. Economicamente, il rapporto con l’Europa rimane fondamentale, con legami profondi e che rendono impossibile un colpo netto di rottura.
Per quanto riguarda il futuro, c’è un’effettiva possibilità di cambiamento? È possibile un ricambio alla guida del paese?
Dal 2018 è stato instaurato un sistema presidenziale che ha accentrato il potere nelle mani di Erdoğan, avvantaggiando di molto il governo. Nonostante questo, abbiamo registrato una forte esigenza di cambiamento, manifestata dai cittadini nelle ultime elezioni amministrative. Fondamentale è stato sicuramente il voto giovanile, che in Turchia ha un forte peso data l’età media bassa della popolazione. Il fatto di modellare una società come quella voluta dal presidente non va giù a queste giovani generazioni, che tramite Internet sono aperte al mondo. C’è quindi una società civile che vuole cambiare le cose e cercare di rendere la Turchia più democratica ed è determinante, per l’Europa, entrare in contatto con questi movimenti. Non bisogna pensare che ognuno se la debba cavare per conto proprio: è importante costruire delle reti transnazionali.
Per concludere, crede che il destino della Turchia sia ancora l’Europa?
Il problema è questo: vogliamo che la Turchia diventi un paese sempre più autoritario oppure democratico? Cosa dobbiamo fare? Darle una mano, soprattutto a livello di società civile: è necessario sviluppare reti e scambi culturali, conoscerci a vicenda, perché tutte le ritrosie e le negatività da parte sia dei turchi che degli europei sono dovute proprio alla mancanza di contatti diretti.
Daniele Frisco