LECCO – Entra in scena a passo deciso, con lo sguardo fisso davanti a sé, Tonina. Ci guarda, noi, curiosi che nella serata di sabato 31 maggio affolliamo la platea del Teatro della Società di Lecco per sviscerare la tragedia, e ci grida di andarcene, di non costringerla a ravvivare il dolore ancora una volta. Ci chiama «giornalisti», ed è evidente il suo astio contro chi fece a gara per scegliere il titolo più forte, più efficace, più denigrante quando il suo Marco cadde per mai più risollevarsi. Non guarda i video che scorrono alle sue spalle, guarda noi, dritto negli occhi, perché vuole giustizia. Non pietà.
Perché per lei Marco è ed è sempre stato un figlio, prima che un campione: un figlio birichino che le rubava la bicicletta per pedalare furiosamente lungo le strade di Cesenatico; un figlio che non andava volentieri a scuola, perché aveva in mente solo la bicicletta; un figlio che, ancora piccino, si allenava accanto ai più forti e sembrava sfidarli, o voler imparare da loro; un figlio che, più grande, la chiamava dall’ospedale e le diceva «Mamma, non è niente», e poi lei andava e vedeva la sua schiena livida e le sue ginocchia maciullate dalla forza d’impatto di un’auto in corsa, contromano, sulla sede di gara della Milano-Torino, in corrispondenza della discesa Pino Torinese.
Un figlio con una forza di volontà tale da sapersi risollevare dagli incidenti più spaventosi, con un fisico esile che racchiude però un’energia incontenibile, con un coraggio che gli permette di ribattere colpo su colpo a una sfortuna che si accanisce contro di lui, sempre; un figlio con la semplicità di un ragazzino di provincia che ha una passione e che non si lascia corrompere dallo star system nemmeno quando raggiunge le vette del ciclismo e inizia a essere chiamato “mito”, o “eroe”.
I toni di Ermanna Montanari, eccellente Tonina, si addolciscono quando parla del figlio: lei, madre indurita dal dolore, belva che non ha potuto difendere il suo cucciolo e che riesce a stento a trattenere il suo furore, si placa e si commuove nel ricordare le imprese di Marco. Il Pirata, anche se a lei quel soprannome non è mai andato giù, perché Marco non è un bandito, ma un bravo ragazzo. E qui nemmeno il padre Paolo può tacere: davanti al ricordo dei successi del figlio non riesce a trattenere l’orgoglio, perché lo scalatore che viene dal mare è figlio suo, è sangue del suo sangue, e la macchina del fango che ne ha lordata la memoria non basta a intaccare l’immagine splendente del campione che sorride agli occhi di un padre fiero.
Tanto più forte la rabbia, tanto più forte il disgusto nel ricordare il Giro d’Italia del 1999: la forma perfetta, il salto di catena a pochi kilometri dal traguardo e la vittoria nonostante tutto, una vittoria annunciata… e poi il dramma: la mattina del 5 giugno, i risultati delle analisi rilevano per Pantani un ematocrito troppo alto, lievemente al di sopra del margine di tolleranza consentito dall’UCI. La sospensione per 15 giorni. Il sogno della vittoria infranto. La vergogna. Il fango gettato da quegli stessi giornalisti che fino a quel momento lo avevano osannato.
L’ipotesi di un complotto è suggerita con chiarezza da questo coinvolgente esempio di teatro-inchiesta. Ma l’efficacia dello spettacolo ideato da Marco Martinelli e da Ermanna Montanari non sta tanto nel desiderio di riscattare l’immagine del campione, quanto piuttosto nel denunciare con forza un sistema massmediatico che può innalzare ai vertici della fama e subito dopo abbattere, senza pietà, quegli stessi idoli che ha contribuito a creare. Non si legge buonismo, in questo spettacolo, ma una valutazione amara su quanto possa essere deleterio un sistema sociale che ha bisogno di eroi, ma anche di capri espiatori da sacrificare al moralismo dei benpensanti.
Ci viene suggerita l’idea che forse Marco non smise di correre per lo scandalo, o perché effettivamente fosse colpevole, o perché le numerose indagini lo avessero stremato: ci viene suggerita l’idea che smise di correre per quel “Torna a casa tua, dopato!” che si sentì gridare contro da un’auto in corsa, durante un allenamento. Ci viene suggerita l’idea che la nostra società ha un bisogno costante di vittime sacrificali, e che le trova malgrado tutto e le immola malgrado tutto, a torto o a ragione non importa. Ed è fondamentale questa riflessione, perché sottrae chiunque alla rassicurante certezza di non essere condannati. Chiunque può essere vittima, chiunque può essere additato e immolato, per quanto forte sia la volontà di dimostrare la propria innocenza.
Forse è questa la funzione dei cori che costellano la rappresentazione e ne accompagnano i momenti fondamentali: ricordano il coro greco, che dialogava con l’attore in scena e dava voce al sentimento del popolo. Danno voce – una voce struggente, quando si scioglie in canto – allo spettatore in platea, a tutti e a ciascuno. Perché non solo di Pantani si parla, ma anche di Marco, un ragazzo che ha creduto in un sogno e poi (dopo la sua vita di sportivo, scrive e dichiara e ripete nelle ultime interviste) ha sbagliato come chiunque può sbagliare. Ma che, a differenza di molti, non ha avuto una seconda possibilità.
Katia Angioletti