LECCO – «Milioni e milioni di ombre delle genti di questi canti e di queste storie. Ombre grandi e piccine, sulla nostra martoriata terra d’Europa». Martoriata, l’Europa: una terra che settant’anni fa ha perso una parte di sé, della sua cultura. Ne canta l’anima, Moni Ovadia. L’anima di un popolo cancellato con rapidità, razionalità. Un popolo da sempre in esilio ma dalla vitale ironia, capace di mantenere, pur nella diaspora, tratti di una cultura antichissima, sdrammatizzandola con storielle divertenti e autoironiche. Il mondo degli ebrei dell’Est Europa, quello della musica kletzmer, dello yiddish e degli shtetl, è tornato a vivere sul palco del Teatro della Società di Lecco, che nella serata del 22 aprile ha accolto lo spettacolo reduce da più di vent’anni di tournée internazionale, quel Cabaret Yiddish firmato e interpretato da Moni Ovadia.
Più di due ore di musica, parole, storie, per raccontare di un mondo che non esiste più, «un mondo – così ne parla lo stesso attore nato a Plovdiv – che sembra lontano ma che ha avuto sulla nostra storia grande influenza». E così ecco prendere forma, sul palco, un cabaret che si fa viaggio: accompagnato dal clarinetto di Paolo Rocca, dal flauto di Maurizio Dehò, dalla fisarmonica di Albert Florian Mihai e dal contrabbasso di Luca Garlaschelli, Ovadia canta l’ebreo errante, la cultura dell’esilio, il popolo tra i confini, non dentro. Canti in yiddish, naturalmente, che con la loro musicalità ed espressività parlano, anche a chi questo poetico miscuglio di idiomi diversi non lo conosce, di gioia e dolore, di festa e misticismo. Una lingua che supera le frontiere e che nell’esilio, di generazione in generazione, non si perde, perché lo yiddish è la lingua dell’esilio, nasce nell’esilio.
E poi le storielle ebraiche, protagoniste insieme alla musica di numerosi spettacoli di Ovadia. Storielle simili, così dice l’attore, a quelle antisemite, con l’unica differenza che a raccontarle è un ebreo. Il naso grosso, l’avarizia, il fiuto per gli affari: ecco scorrere, di racconto in racconto, alcuni dei peggiori luoghi comuni e pregiudizi, qui squisitamente trasformati in pungente, divertente autoironia. E così ecco farsi largo la figura ingombrante della yiddishe mame, la mamma ebraica che alterna «l’amore sconfinato per le proprie creature e la volontà di dominio su di loro», o «uno di quei rabbini del genere New York, Manhattan, Quinta strada», diviso tra la possibilità di raccogliere un prezioso tesoro appena trovato per strada e la necessità di rispettare lo Shabbat e non toccare denaro. O ancora una coppia di fratelli e soci sempre di New York, che commercializzano un salmone in scatola che è solo da vendere, e mai da mangiare.
Ironia, certo, ma anche profondità, misticismo, sofferta accettazione della Shoah. L’epilogo è questo, è l’«ultimo canto degli ultimi ebrei sulla terra d’Europa». Un canto struggente, dove la voce profonda, roca, sofferta di Ovadia rapisce gli spettatori. Eccole, le ombre, tutte intorno a chi è sopravvissuto, anima sola, persa in un’Europa che non riconosce più, che le è estranea. Un canto sempre in yiddish ma comprensibilissimo: toccante, a tratti disperato, altre volte quasi di rabbia. Dalla musica e dalla voce ecco emergere il vissuto di un intero popolo, la drammatica realtà, lo smarrimento del dopo, «milioni e milioni di ombre».
Valentina Sala