In quest’ultimo quindicennio, con tutto quello che è successo nel mondo, la voce dei Gang è mancata parecchio. Finalmente la band marchigiana torna con un nuovo album: si tratta di “Sangue e cenere”, un lavoro più che eccellente. Ecco la recensione del disco: primo appuntamento con “Radio Flâneur”, la nuova rubrica musicale curata per Il Flâneur da Matteo Manente.
LECCO – Ci sono canzoni che si possono scrivere e cantare solo se si possiede un certo livello di credibilità e per mantenere questa credibilità, spesso, contano il rigore morale, la coerenza e le scelte stilistiche intraprese nel tempo, in quell’intervallo di silenzio sempre più assordante che a volte può anche passare tra un disco e l’altro. È il caso dei Gang, la Banda dei Fratelli Severini, che in fatto di credibilità ne hanno da vendere e che finalmente, dopo quindici anni dall’ultimo album di inediti, sono tornati a graffiare con il nuovo Sangue e cenere. Certo, nel mezzo ci sono stati tantissimi concerti, dischi live (Dalla polvere al cielo) e altri lavori stagionali, come li ha definiti lo stesso Marino Severini, leader della band, dalle collaborazioni con il teatro civile di Daniele Biacchessi (Il Paese della vergogna e Storie dell’altra Italia) al lavoro di recupero della tradizione regionale prima con il disco insieme al gruppo La Macina (Nel tempo e oltre cantando) e poi con quel gioiellino denominato Il seme e la speranza, fino al processo di rilettura delle canzoni partigiane e antifasciste culminato con La rossa primavera. Tuttavia, un vero disco di inediti mancava da Controverso (2000) e in quest’ultimo quindicennio, con tutto quello che è successo nel mondo, la voce dei Gang è mancata parecchio.
Parlando di Sangue e cenere, nato da un fortunato progetto di crowdfunding e autoproduzione insieme ai fans, è quasi superfluo dire che si tratta di un lavoro più che eccellente: i fratelli Severini sono sempre stati una garanzia di qualità compositiva, ma qui siamo di fronte a qualcosa di piacevolmente sbalorditivo, considerata proprio la distanza temporale tra il nuovo lavoro e l’ultima prova in studio della band marchigiana. Ma il tempo che passa, come per i migliori songwriter d’oltreoceano (leggasi Springsteen, che tornerà più volte come riferimento in questa recensione), pare essere un elemento a favore della creatività, anziché un intralcio: Marino Severini è una delle penne più alte del rock italico e andrebbe considerato alla pari di tanti altri cantautori che, giustamente, sono riconosciuti per aver scritto le pagine più importanti della forma canzone nel nostro Paese. Un Paese, l’Italia, che fa da sfondo inevitabile a molte delle storie raccontate in questo nuovo album dei Gang; un’Italia che a tratti lascia spazio all’Europa, anche se l’atmosfera desolata che fa da sfondo alle nuove composizioni non cambia a seconda dello scenario in cui vengono collocate. Che si tratti di lavoratori uccisi dall’amianto (Non finisce qui), di migranti in cerca di terra dove andare (Marenostro), di episodi legati alla Resistenza (Alle barricate e Ottavo chilometro) o delle vittime della guerra in ex Jugoslavia (Gli angeli di Novi Sad e Più forte della morte è l’amore) poco cambia: le nuove canzoni dei Gang vanno a toccare quelle corde sensazionali che a volte ci dimentichiamo di avere, sommersi come siamo da tutta quella “immondizia musicale” ben nota al Battiato di Bandiera Bianca.
La produzione di Jono Manson e l’aggiunta di alcuni musicisti americani scelti per l’occasione dona alle canzoni dei Gang una nuova veste sonora, con fiati, organo Hammond e steel guitar che aggiungono pregio a brani già carichi di storia, pathos e poesia. Brani che a ben vedere celano tra i loro versi quasi sempre delle storie realmente accadute e proprio il tema del racconto è quello che sembra interessare maggiormente a Marino e Sandro Severini in questa nuova fase artistica: lasciata da parte l’anima più combat-rock e barricadiera degli esordi (che comunque non manca di far capolino qua e là nel disco), le canzoni assumono il ritmo della ballata, portando nell’album quell’atmosfera di raccolta partecipazione che si respirava una volta intorno al fuoco mentre si ascoltavano storie e racconti di ogni genere.
LE TRACCE, UNA PER UNA
L’attacco di Sangue e cenere va esattamente nella direzione appena detta: “Io non amo canzoni di ferro, amo i riccioli d’oro / e porto il passo che apre la danza nel cerchio di fuoco/ e vengo coi figli feriti negli occhi, feriti dal sogno / io torno per l’ultimo assedio alle vostre città…”. La voce calda di Marino non poteva essere più esplicita, mentre le chitarre del fratello Sandro disegnano nuove staffilate sonore che sostengono tutto l’andamento della canzone che dà il titolo al disco. Lo scenario è quello di un luogo desolato e caduto in rovina, dove sono rimasti solo “sangue e cenere” e una manciata di sogni traditi, un luogo nel quale i Gang si definiscono come “l’ultimo assedio alle vostre città / perché così è, così sia e così sarà…”: la musica, il rock, la poesia, la voglia di semplicità e la partecipazione collettiva come antidoto al decadimento del mondo attuale… un perfetto biglietto da visita per iniziare questo nuovo viaggio.
Passata la sbornia iniziale, i toni musicali si fanno più rilassati e si arriva a uno dei vertici assoluti del disco (ammesso che ce ne sia uno più assoluto degli altri!), ovvero la ballata Non finisce qui: “Ho scritto questa canzone – ha dichiarato Marino Severini nelle note che hanno anticipato il disco – soprattutto per stare dalla parte di coloro che oggi chiedono giustizia per le morti di tanti lavoratori come quelli della ex Breda e per far conoscere l’esistenza e la storia del Comitato per la difesa della salute di Sesto San Giovanni. Perché non restino da soli, perché non sia mai abbandonata la lotta per la verità e la giustizia”.
La canzone è una ballata in forma epistolare nella quale il figlio di uno dei troppi operai vittime dell’amianto racconta la vita di suo padre davanti al giudice; una canzone che assume un’attualità ancora più drammatica alla luce delle sentenze emesse nelle scorse settimane, verdetti che spesso assolvono i colpevoli di quelle morti e non rendono giustizia ai tanti “morti di lavoro”. Impossibile restare insensibili mentre la voce di Marino canta la storia di questo lavoratore impiegato “alla Breda ferro e fuoco, come fosse un condannato”: prima la necessità di trovare un lavoro, anche “il meno peggio” (“se ti prendono per fame prima o poi ti fanno ostaggio / così quando non hai scelta non ti resta che il coraggio”), poi la capacità di adattarsi e la morte per malattia (“ferro e fuoco, fuoco e ferro e polvere d’amianto / prima ti avvelena il sangue, poi diventa cancro”); infine il senso di ingiustizia esternato dal figlio per una storia che “vostro onore qui non può finire”.
Se c’è un tema nel quale i Gang sono maestri indiscussi è quello delle canzoni a contenuto storico, quelle nelle quali vengono ricordati avvenimenti o figure del tempo passato: in questo caso sono ancora una volta la Resistenza e l’Antifascismo che tornano a far capolino nel loro canzoniere, con i brani Alle barricate e Ottavo chilometro. Si tratta di due componimenti opposti a livello musicale, ma accomunati dalla stessa voglia di testimoniare e raccontare le “radici” da cui proveniamo. “Ancora una volta ho voluto cantare la Resistenza – ha affermato Marino Severini – perché dal Canzoniere dei Gang questi due momenti, secondo me, non potevano mancare. Dopo queste canzoni penso proprio di aver concluso questo ciclo, questo “canto grande” ispirato alle storie e alle gesta della Resistenza”.
Trascinata da un arrangiamento irresistibile che è un misto tra Clash e Pogues, Alle barricate rievoca la resistenza della città di Parma nell’agosto del 1922, quando si ribellò con successo alla marcia dei fascisti guidati da Italo Balbo: “Son come la peste nera, vigliacchi ed assassini / al soldo dei padroni, agli ordini di Mussolini / ma la Parma non si passa, Parma è un’altra storia / si sente Oltretorrente solo un grido: Morte o Gloria! / Alle barricate, alle barricate, alle barricate!”. A proposito delle Barricate di Parma, Marino ha osservato che “una cosa resta e resterà per sempre rispetto a questa storia ed è una lezione e un monito che vale ancora oggi. Se in tutto il resto del paese si fosse fatto come fecero a Parma quelli dell’Oltretorrente, ebbene, a questo paese sarebbero stati risparmiati vent’anni di atrocità, di orrore e di dittatura fascista. Ciò che va fatto va fatto sempre in tempo, perché è giusto farlo. Questo pesa ancora sulla coscienza di tutto il Paese”. Ripeto, per non scadere nella retorica di fronte a questi argomenti bisogna avere credibilità, non tutti possono permettersi canzoni di questo livello.
La seconda canzone dedicata alla Resistenza è Ottavo chilometro, una ballad che ripercorre una pagina poco nota della lotta di Liberazione avvenuta nelle Marche: “E’ una sorta di promessa – ha scritto Marino Severini – fatta ad un uomo che non c’è più, ma che resterà per sempre nel sentimento della memoria mio e di molti altri compagni: Wilfredo Caimmi, partigiano una volta e per sempre. Nato ad Ancona nel quartiere popolare del Piano San Lazzaro. Comunista, partigiano a 18 anni aderì alle Brigate Garibaldi”. Gli uomini guidati da Willfredo Caimmi, nome di battaglia Rolando, “sono quelli dell’ottavo chilometro / partigiani una volta, partigiani per sempre / e l’alba li attende sul sentiero che passa e che va…”. Un’altra pagina di Resistenza messa in musica con grande maestria dai Gang, che va ad aggiungersi ad altri episodi cantati negli anni, come La pianura dei 7 fratelli, Eurialo e Niso, 4 maggio 1944, Aprile e tanti altri.
Su Marenostro bisognerebbe scrivere una recensione a parte, tanto è bella, essenziale e altrettanto necessaria: una preghiera laica che si alza prepotente per mettere a tacere una volta per sempre ciarlatani e fomentatori che su migranti e clandestini ci marciano da tempo per meri scopi politici. Un’invocazione al mare, affinché non faccia affogare i migranti in quello specchio d’acqua che ogni giorno vede transitare barconi colmi di disperati in fuga da guerre e devastazioni, uomini che “sono loro la storia del grano / il fuoco che torna al tramonto / il pane spezzato e diviso alla fine del giorno”. Una richiesta di pietas rivolta al mare, perché la traversata non si trasformi in tragedia, nella speranza “che la riva non sia galera, né manette, né foglio di via / ma sia strada bagnata dal sole, non sia mai una strada cattiva…”. Una canzone che emoziona e mette i brividi come poche altre, con arrangiamenti nei fraseggi musicali tra le strofe che richiamano e rimandano a certi suoni e atmosfere mediterranee introdotte a loro tempo da De Andrè e Pagani in quel capolavoro che risponde al nome di Creuza de ma.
La Storia e i suoi protagonisti tornano prepotenti in altri due ritratti totalmente diversi tra loro, ma entrambi perfettamente riusciti e funzionali per raccontare il nostro tempo.
Perché Fausto e Iaio?, qui riproposta in versione elettrica, arriva dritta dallo spettacolo teatrale Il Paese della vergogna, portato in scena qualche anno fa con Daniele Biacchessi: “Ho voluto riprendere questa canzone in Sangue e Cenere – ha spiegato Marino – per dare al suo testo un’ambientazione e una tonalità più epica, direi più vicina a quei territori dove il rock incontra la Tragedia greca. In questa vicenda le ragioni della Storia, ossia del Potere, si scontrano con quelle delle storie e queste, come nel caso delle vite di due ragazzi, vengono sacrificate. Così si fa la Storia! Ed ecco perché dopo anni e anni come per tante storie simili non c’è nessuna verità e nessuna giustizia. Perché il Potere e le sue ragioni di essere ed esistere, pur avvicendandosi e cambiando maschera, resta lo stesso in questo Paese. Il Potere è assassino per sua natura perché sa che resterà impunito. E noi, purché sconfitti ma non ancora Vinti, non dimentichiamo ma teniamo vive ancora queste storie, le Nostre”.
La canzone ripercorre la vicenda di Fausto Tinelli e Lorenzo “Iaio” Iannucci, due giovani frequentatori del Leoncavallo di Milano uccisi per strada la sera del 18 marzo 1978: “Sono solo ragazzi fra la pioggia ed il fuoco / sono solo ragazzi fra il primo lavoro e l’ultimo gioco / sulla via del ritorno il silenzio ora è strano / in una città che ha paura del vento e assomiglia a Milano / ma Milano non è… Perché, perché, perché Fausto e Iaio?”. Uno dei tanti misteri irrisolti del nostro paese, una domanda che ancora oggi attende una risposta ufficiale, nonostante il sospetto che chi ha mandato i cinque sicari in via Mancinelli per uccidere Fausto e Iaio “presta servizio, è servo fedele e riscuote a palazzo”.
Nino invece è un piccolo affresco incastonato a metà del disco, probabilmente il brano più politico del lotto, intendendo l’aggettivo politico nel senso più nobile del termine. Nino era il soprannome di Antonio Gramsci da bambino ed è proprio ispirandosi a una visita nella sua casa natale che Marino ha trovato l’ispirazione per scrivere una delle invettive politiche più aspre degli ultimi tempi: “Ho immaginato Gramsci da bambino affacciato a quella finestra e con gli occhi rivolti a quel panorama. Ogni volta che si intende ripartire occorre, secondo me, Tornare al punto di partenza. Gramsci resta oggi più di ieri il grande Oceano dove sempre più spesso torno a nuotare e le sue acque ogni volta sono capaci non solo di purificare, ma di rigenerare. Gramsci ci ha lasciato in eredità il pensiero più importante del 900: l’opera dell’uomo dei consigli di fabbrica, della questione meridionale, dell’americanismo, delle analisi circa i motivi e gli strumenti attraverso cui si crea il consenso di una società di massa, del ruolo della cultura, degli intellettuali e della loro organicità. Senza Gramsci non riusciremo a ritrovare quell’Unità. Senza Gramsci non sapremo ricrearla e senza Gramsci non sapremo ritrovare il ruolo di comunisti del Futuro”.
Ma Nino non è solo un ricordo di Gramsci, è anche lo spunto per denunciare e condannare coloro che hanno svenduto negli anni questa eredità, asservendola a meri interessi di mercato, in nome dell’affare e della maggioranza a tutti i costi, per il Potere. Partendo dalla figura di Gramsci, viene fatta una rapida panoramica dell’attuale panorama politico, soprattutto quello al quale si pensava di appartenere… e il risultato è impietoso! “Nino hanno risate da congresso e fanno scorta per il coprifuoco / piangono lacrime recitate e sono bravi a fare il doppiogioco… / Nino vanno in onda ogni sera / ma sull’acqua non sanno più camminare / fanno i conti solo con il mercato e del partito hanno fatto un affare…”. Di fronte a questa mercificazione dell’ideale e del partito, ormai inarrestabile anche a sinistra, viene naturale rivendicare a pieni polmoni un grido di appartenenza che assume i contorni di una liberazione quasi necessaria: “Comunista è chi frema la mano che alza il bastone / comunista è la terra oltre ogni nazione / comunista non è che un sentimento, è Rivoluzione / comunista ora e sempre per l’unità…”. A proposito della coerenza e della credibilità di cui si faceva cenno all’inizio… solo i Gang!
Le successive due canzoni rappresentano quello che non ti aspetteresti in un disco dei Gang e si muovono entrambe nello scenario della guerra nei Balcani dei primi anni ’90. Inaspettate perché lontane per stile e riferimenti culturali da quello che è lo standard dei Gang, ma non per questo meno cariche di suggestioni e significati. La prima si intitola Gli angeli di Novi Sad, un brano arrangiato e suonato completamente con l’Orchestra Pergolesi diretta dal Maestro Stefano Campolucci, evocativo e drammatico al tempo stesso. È lo stesso Marino Severini a spiegare cosa l’ha spinto a scrivere un pezzo del genere: “Ho sempre avuto la sensazione che la guerra in Kosovo fosse stato il patto fondante della Nuova Europa, quella che conosciamo oggi, quella dopo il Muro per intenderci. Ebbene, in ogni atto fondativo si prende una vittima sacrificale e in questo caso la vittima è stato il popolo serbo. Il nemico, il mostro, colui che bisognava sacrificare al nuovo ordine d’Europa. Il resto, le atrocità, l’orrore, è stato la conseguenza di chi ha voluto tutto ciò, l’ha provocato e poi è restato a guardare: l’Europa”. A influire sulla stesura della canzone ci hanno pensato poi anche altre letture, che hanno permesso a Marino di “mettere ancora meglio a fuoco quella che è stata la guerra nella ex Jugoslavia e per non unirmi al coro semplicistico d’occidente contro le atrocità della guerra etnica e per non puntare il dito sulla vittima sacrificale e per un senso di giustizia verso il popolo serbo”. Prima è stata la volta di “Un viaggio d’inverno” e “Appendice di un lungo viaggio d’inverno” di Peter Handke, poi de “Il ponte sulla Drina” del serbo Ivo Andric, che ha restituito alla voce dei Gang la visione del Ponte come punto d’incontro possibile fra diverse civiltà: “Musulmani, cristiani, ebrei, nemici per tanti secoli, intorno a questo ponte si sono incontrati, hanno constatato la loro comune natura di uomini, oltre le ideologie, hanno sperimentato la possibilità di raggiungere la comprensione”. Da qui i versi più carichi di pathos dell’intera composizione: “Le Ali stesero nel sole / Il Ponte! Il Ponte! / Riva a riva / Perché ogni passo sia Cammino / vennero gli angeli a Novi Sad / Erano angeli caduti / a Novi Sad…”. Infine un’ultima considerazione sulla canzone, sempre ad opera di Marino Severini: “Ho scritto questa canzone perché un popolo non si deve mai demonizzare, un giorno tocca a quello serbo ma un altro può toccare al mio popolo. Perché non bisogna mai identificare un popolo con i propri estremisti. Perché provo ancor oggi in quanto comunista un senso profondo di vergogna nei confronti del popolo serbo in quanto è stato proprio il governo D’Alema ad autorizzare l’intervento militare e l’utilizzo dello spazio aereo italiano per i bombardamenti sul Kosovo a seguito della decisione della NATO. Penso che la storia della sinistra italiana finisca in quel momento. Da lì in poi niente è stato più come prima”.
Quanto al successivo Più forte della morte è l’amore, si tratta di ritratto in chiave soul-gospel ispirato alla vera storia di Gabriele Moreno Locatelli, religioso e pacifista originario di Canzo ucciso da un cecchino a Sarajevo nel 1993 mentre attraversava un ponte dopo aver distribuito aiuti umanitari alle popolazioni in conflitto: “Più forte della Morte è l’Amore / sopra la notte il Fiume scorre e avanza / nel buio sei venuto come un raggio di sole / col passo tuo che toglie ogni distanza / a chi era stanco i piedi hai lavato e hai curato chi era ferito / bruciavano di febbre le labbra che hai bagnato / ed un sorriso avevi per saluto…”.
Ecco come l’ha descritta il suo autore: “La canzone vuole rendere Grazie ad uno dei Giusti del Mondo. Ad un testimone del nostro Tempo, ad un ragazzo che ha dato la sua vita per la nostra Pace! Le storie come quelle di Locatelli sono indispensabili per tenere viva la tradizione cristiana, una di quelle tradizioni che insieme a quella socialista e comunista Gramsciana e quella delle Minoranze eretiche costituiscono gli strumenti necessari per la costruzione del Nostro Futuro. Più che in passato in questo disco ho fatto in modo che attraverso le storie queste tradizioni si potessero Incontrare, dialogare e conoscersi di nuovo”.
A chiudere il disco ci pensano due brani che si muovono invece in atmosfere più private e familiari, come se dopo tutto il viaggio attraverso storia, politica e attualità, fosse necessario anche per i Gang “riportare tutto a casa”, tanto per citare quel Bob Dylan già ampiamente riverito nella copertina del disco, che richiama apertamente i suoi Basement Tapes (ma a ben guardare anche We shall overcome: The Seeger Sessions di Bruce Springsteen, tanto per citarne uno a caso).
Tornando all’universo privato dei Gang, la penultima canzone è quella che in gergo si chiamerebbe “singolo di lancio” e si intitola Nel mio giardino: un brano potente, con un piglio soul-rock da fare invidia proprio alla E Street Band di Springsteen e, nello specifico, a brani come Rosalita (non per niente tra i musicisti impiegati in studio dai Gang figura parte della sezione fiati che suona attualmente con il Boss!). Il testo invece è un campionario delle immagini poetiche più care a Marino Severini, dal sangue alle rose, dal “pane senza vino” alla “pelle di serpente”, da una “montagna che si chiama solitudine” fino all’angelo bianco, al tacchino e alla maschera di Arlecchino, senza tralasciare l’autocitazione del Re Bambino.
Ma se c’è un posto dove tornare dopo tanto vagare è proprio nel giardino di casa, ovvero tra gli affetti più cari, come quelli della famiglia. E proprio al legame speciale che si instaura tra una padre e una figlia è affidato il compito di chiudere il disco, con la dolce ballata Mia figlia ha le ali leggere. E’ un brano forse inedito nel repertorio dei Gang, ma che centra in pieno l’obiettivo ed esprime al meglio tutto l’amore possibile di un padre nei confronti della figlia: “Mia figlia ha le ali leggere / e nel fondo degli occhi ha le mie primavere… Mia figlia è promessa a una pioggia di stelle / è il fiume che bagna le rive del cuore / è quella speranza che diventa canzone / è un giardino nascosto in un bosco di rose / è un fiore che presto diventerà miele…”. Non solo è una canzone perfetta per concludere l’ascolto del nuovo capitolo discografico dei Gang, ma volendo leggere tra le righe, potrebbe rappresentare anche un ipotetico passaggio di testimone da una generazione all’altra, con il padre che rappresenta quel “seme” e quelle “radici” da cui si proviene, mentre la figlia incarna la “speranza” e quelle “ali” (in questo caso leggere) che permettono di sognare “una volta per sempre” un futuro migliore.
D’accordo, saranno solo mie suggestioni, ipotesi, rimandi ad altri titoli del canzoniere dei Gang e tanto altro si potrebbe scrivere, ma se un album come Sangue e Cenere ha il potere di smuovere tutte queste sensazioni e tutti questi ragionamenti dopo pochi ascolti, beh, non possiamo che affermare di essere di fronte a un capolavoro! “Così è, così sia e così sarà”… bentornati, Gang!
Matteo Manente