LECCO – Lo sapevamo già, che Serena non ci avrebbe delusi con il suo spettacolo andato in scena ieri sera 20 maggio, al Teatro della Società di Lecco. Lo sapevamo già, che sarebbe riuscita a farci ridere senza contegno e poi a commuoverci, a fare scorrere qualche lacrima, magari. Lo sapevamo già, che ci avrebbe attratto in un dialogo alimentato dal vortice della sua energia. Viene spontaneo chiamarla Serena, non Sinigaglia, questa grande protagonista del nostro teatro contemporaneo, questa donna che si muove sul palcoscenico con la stessa spontaneità con cui immagineremmo di vederla camminare per strada (una spontaneità frutto di riflessione e studio, però, e di una conoscenza profonda del teatro e dei suoi meccanismi). Serena come un’amica, come una conoscente che una sera decide di condividere con noi le origini della passione di una vita: l’amore per la regia, nato con Shakespeare e grazie a Shakespeare, a seguito della scelta incosciente – col senno di allora –, vincente – col senno di poi –, coraggiosissima pur sempre, di portare l’inarrivabile Bardo come saggio di diploma alla Paolo Grassi di Milano.
Romeo e Giulietta, caposaldo della drammaturgia di tutti i tempi: una scelta dettata dalla necessità di collaborare con attori giovani, suoi compagni di corso, partendo da un testo scritto che però deve convincere e parlare anche al contemporaneo. L’illuminazione: la traduzione schietta e autorevole di Salvatore Quasimodo, che non esita a introdurre il termine “bagascia” nelle note più alte del blank verse shakespeariano, del quale troppo spesso si dimentica la concretezza, il passionale attaccamento all’azione, alla terra, al volgare e al turpe, anche, che gli occorrono per investigare così bene l’animo umano. La riflessione sulla scena del balcone, che dietro una banalità che ha tratto in inganno grandi del cinema, come Zeffirelli e, in anni più recenti, Luhrmann, cela invece una complessità semantica affascinante: perché il balcone è distanza incolmabile, è impossibilità di raggiungere l’oggetto del proprio desiderio, è necessità di temporeggiare che intensifica il desiderio di corpi giovani e pronti all’amore, è tragico invito ad accelerare i tempi oltre il dovuto, oltre la prudenza, oltre quella ragionevolezza che ha fatto scavalcare muri e correre rischi. E poi la recitazione: la ricerca di una misura che nasce da necessità e che è equilibrio, non forzatura; la recitazione che è prima di tutto riflessione su quanto di concreto la partitura d’autore offre, e che fa leggere una rabbia infantile nella celebre dichiarazione di Giulietta, che vorrebbe cancellare il cognome dell’amato, e fa leggere timore e desiderio insieme nella risposta di Romeo, che cessa tutt’a un tratto di essere astratta e si immerge nella realtà del quotidiano, dei palpiti di un amore irruento che coglie i due giovani, e potrebbe colpire chiunque, sempre, con la stessa struggente intensità.
Arriva il successo: insperato, inatteso, incoraggiante, che consente a Serena e ai suoi attori di esibirsi su innumerevoli palcoscenici italiani. La Sinigaglia ce ne narra con la consueta, brillante vis oratoria, mette tutta se stessa (e si sente il suo “esserci”, e si apprezza la mancanza assoluta di qualsiasi melensa retorica) nel ricordo della sera in cui, recatasi al cinema anziché a teatro, rimane folgorata da Tutto su mia madre di Almodòvar. Si incupisce quando la riflessione su quegli anni, l’instabilità politica, la guerra, la morte del padre, la porta a raccontarci dell’idea di dedicare proprio a lui un’opera nuova, che parli del rapporto genitore-figlio e ne esplori le innumerevoli sfumature. Come De Andrè canta la morte anonima di un’anonima prostituta con l’immortale Canzone di Marinella, ci dice Serena. Per onorarla. Per restituire dignità a tutte le morti. Nasce “Lear” ovvero Tutto su mio padre, basato sulla traduzione di King Lear di Laura Curino, donna di teatro e maestra di recitazione. Uno spettacolo dalla complessa architettura, che porta in scena un’opera considerata irrappresentabile eppure così densa di spunti, che la Sinigaglia coglie e fa fiorire con l’aiuto dei suoi attori.
Ci accompagna al termine dello spettacolo, Lear: re decaduto, padre degenere redento dalla sua stessa follia, padre che porta in braccio il corpo esanime della figlia, leggero come una piuma, immobile come una leggerissima statua. Il silenzio in sala è palpabile: gli spettatori, che fino a quel momento hanno sorriso, anche riso, ammutoliscono di fronte all’apoteosi del dolore. Ci avrebbe commosso, Serena. Lo sapevamo già. Ma avrebbe anche trovato il modo di sorprenderci: e lo fa facendo rinascere Cordelia dalle carni dello stesso Lear, facendo risorgere la figlia dal padre. In teatro si può: in teatro basta togliere il cerone bianco e liberarsi di quella surreale camicia d’oro. In teatro si può credere in un finale diverso, si può continuare a sperare e si può persino vedere di nuovo Cordelia che sorride, scherza e si libera in una danza scatenata.
Grande merito, accanto alla Sinigaglia, spetta anche ad Arianna Scommegna e a Mattia Fabris, eccellenti interpreti dei quali in questo spettacolo brilla la versatilità: voci interiori della stessa Serena, esilaranti commissari d’esame, attori svogliati, Romeo, Giulietta, Lear. E la conferenza-spettacolo, così annunciata in locandina, attraverso la loro partecipazione diventa intenso ricordo di un’esperienza di vita condivisa.
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Katia Angioletti