Assistere a uno spettacolo di Andrea Cosentino è sempre un’esperienza che non lascia indifferenti, che sicuramente diverte, ma che allo stesso tempo scuote, turba, spesso inquieta. Quelli di Cosentino sono spettacoli di pura avanguardia, in un momento storico dove tutto sembra appiattito sul presente, dove pochi hanno la voglia e il tempo di riflettere su cosa sia l’arte, su che valore o ruolo abbia l’opera teatrale o, più in generale, la cultura. Cosa molto difficile in un panorama, quello italiano, che si sta riducendo sempre di più al grande evento vuoto di contenuti (magari in occasione della ricorrenza), al grande nome, alla comunicazione che sostituisce ricerca e sperimentazione.
E l’ultimo monologo dell’attore e comico è forse quello più estremo, dove si osa di più e si percorrono sentieri meno comprensibili, ma non per questo privi di significato. Stiamo parlando di Kotekino Riff, andato in scena domenica 29 agosto a Perego (La Valletta Brianza) all’interno della 24^ edizione del festival L’ultima luna d’estate di Teatro Invito e Consorzio Villa Greppi. Un lavoro nel quale Cosentino si presenta sul palco con il suo armamentario di oggetti che prendono vita per mezzo della fantasia e della gestualità dell’artista e che compongono una serie ininterrotta e frammentata di sketch troncati, apparentemente idioti e senza senso, resi comunque efficaci dalla mimica quasi clownesca dell’attore.
E così galline che dialogano con uova, mollette costrette al silenzio, paperelle parlanti e altri giochi, oggetti e personaggi immaginari ci vengono presentati e subito dopo sottratti da un attore che già in apertura provoca il pubblico, definendo brutto il proprio spettacolo e prospettando agli spettatori la vendetta finale su di lui, reo di aver fatto perdere loro del tempo, per giunta a pagamento: una vendetta che sarà, prima o poi, la sua morte. E questa introduzione rappresenta anche l’inizio di un filo conduttore lungo tutta la performance, che può anche non essere colto (lo spettacolo funziona lo stesso), ma che sembra essere alla base della riflessione/gioco del comico: una continua provocazione, una critica volta a scardinare i rapporti tra palco e platea, attore e spettatore, a mettere in discussione, ancora una volta, ogni struttura e l’opera stessa e, più in generale, i meccanismi di una società dell’immagine e dell’apparenza.
Cosentino lo fa in due differenti modalità: se all’inizio (la parte più avanguardistica) siamo in pieno delirio jazzistico, contrappuntato dai graffi del chitarrista Maurizio Aliffi e dove assistiamo alla completa destrutturazione dello sketch, nella seconda parte lo spettacolo si fa più tradizionale, con una serie di pezzi a cavallo tra il cabaret e la stand up comedy. L’attore si trasforma in diversi personaggi che dialogano tra loro e con il pubblico: gli esperti di comunicazione e pubblicità, la persona semplice senza sottotesti o l’attore che declama Dante, di cui il comico propone una satira dei primi passi della Divina Commedia. Anche in questa seconda parte, però, senza perdere la sottotraccia che caratterizza il suo teatro, resa più chiara nel cambio stilistico. Gli argomenti trattati sono sempre densi di significato (anche se non si percepisce): per esempio i problemi comunicativi, la necessità di abbassare il livello qualitativo per arrivare meglio alle persone o dare agli spettatori quello che vogliono, fino a trasformarsi nel pubblico stesso. Qui l’attore interpreta addirittura gli spettatori, ne ascolta i pensieri, lanciando divertenti (o inquietanti?) provocazioni, mettendo in crisi nuovamente il rapporto attore-spettatore, prima dell’applauso finale, perché il teatro è bello quando finisce.
Poteva bastare così, ma Cosentino riappare nel bis con il burattino di Antonin Artaud nelle vesti di un mendicante e propone uno dei suoi pezzi più belli, un monologo urticante, che raggela. Si cambia registro, non si ride più, il pubblico viene investito da una serie di pressanti domande che lo spiazzano e lo lasciano completamente disarmato, con lo sbriciolarsi di tutte le sue certezze sul senso di aver assistito a uno spettacolo, sull’utilità della cultura, sulla mercificazione dell’arte, sui sensi di colpa, sul narcisismo degli attori ma anche e soprattutto degli spettatori. Un messaggio che sicuramente non si stacca di dosso per un po’, facendo vedere con occhi completamente diversi il viaggio sconclusionato, senza una linea e una direzione dell’ora precedente, in cui certamente ci si è divertiti (accettando magari volentieri il presunto nonsense), e scoprendo improvvisamente di essere stati al centro di un esperimento, di un gioco avanguardistico che ci ha interrogato e, a volte, messo sotto accusa.
«L’arte è accattonaggio? L’accattonaggio è una forma d’arte? L’arte è morta? L’arte è viva e noi siamo morti? A che gioco stiamo giocando? Mi dai dei soldi? Perché, nonostante tutto, comunque, ormai vecchi, forse morti, forse morti da sempre, comunque, nonostante tutto, stiamo giocando».
Daniele Frisco
Foto di apertura e foto finale @ Maurizio Anderlini