RADIO FLÂNEUR – “Zyngher” di Lorenzo Monguzzi.
Viaggio dialettale tra cover e inediti per la voce dei Mercanti di Liquore

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Per anni è stato voce e anima dei Mercanti di Liquore, con i quali ha scritto pagine bellissime per la musica d’autore italiana; poi è arrivata la proficua collaborazione teatrale con Marco Paolini, che continua ancora oggi senza sosta; infine è stata la volta di una carriera solista fatta di concerti e nuove canzoni, alcune delle quali finite nell’album Portavèrta del 2013. Ora, dopo alcuni anni di silenzio discografico, Lorenzo Monguzzi si ripresenta sulle scene con il nuovo lavoro intitolato Zyngher: un progetto molto particolare e ambizioso, che si è concretizzato anche grazie a una fortunata campagna di crowdfunding fra i sostenitori del cantautore brianzolo.

Zyngher è un disco ibrido con brani nuovi e cover di importanti artisti internazionali, per certi versi anomalo e spigoloso per via dell’uso esclusivo del dialetto brianzolo, sicuramente coraggioso e volutamente lontano da ogni possibile logica commerciale o di mercato: per addomesticarlo e scoprirne fino in fondo le sue potenzialità servono ripetuti ascolti, ma poi si rivela in tutta la propria poesia, bellezza e profondità. Tutta questa complessità deriva da un paio di motivi: innanzitutto, la scelta esclusiva del dialetto brianzolo come codice linguistico ed espressivo per dar voce alle nuove storie da cantare, maturate e scritte in questi ultimi anni lontano dalle sale di registrazione (La tusa de Lisùn, Un alter café, L’è minga vera e la splendida Preghiera del làder); in secondo luogo, la volontà da parte di Monguzzi di tradurre e riadattare a modo suo – sempre in dialetto – alcune canzoni dei suoi artisti internazionali preferiti, da Nick Cave a Suzanne Vega, passando per i Clash di Joe Strummer e Johnny Cash. In questo modo, The guns of Brixton dei Clash diventa I rivultèi de Brixton, Gypsy di Suzanne Vega si trasforma nella titletrack Zyngher, Folsom Prison Blues di Cash si tramuta inevitabilmente in San Vitùr Blues, mentre solo Henry Lee di Nick Cave mantiene lo stesso titolo dell’originale. A detta del suo autore, Zyngher prevedeva molte più canzoni, ma fra diritti d’autore negati dagli editori (“vorrei dire a Bob, Bruce e agli altri che li perdono e non porto rancore”, ha ironizzato Monguzzi) e alcune idee che a traduzione finita non rendevano giustizia agli originali, il nuovo album dell’artista lombardo si compone soltanto di otto tracce (che a ben guardare è davvero l’unico suo limite), quattro inedite e quattro rivisitazioni che ben si legano e amalgamano fra loro, regalando momenti di grande poesia e di altissima qualità cantautorale.

Dopo un avvio inaspettato e un po’ spaesante per le atmosfere convulse che pervadono il primo inedito intitolato La tusa di Lisùn (“Scàpan i ann, scàpan i mes, la scàpa via anca lé, e la mia mama la gh’era resun, ti fìdes no de üna de Lisùn…”), ecco la prima cover del disco: Henry Lee di Nick Cave è una piccola perla acustica impreziosita dal duetto vocale tra Monguzzi e Leslie Abbadini (“Vén chì, vén chì oh Henry Lee, stanott sta insèma a mi, te truaré no a girà tutt el mund, nissüna mèi de mi… E ‘l vent el vusa e ‘l vent el diss… La la la la la, la la la la lì… canta ‘l fringuèll per Henry Lee…”). Un alter café è un altro inedito molto delicato tra chitarre arpeggiate e violino, tipico brano nelle corde di Monguzzi che riflette la malinconia di uno che torna al proprio paese d’origine senza trovare più niente di quel che ricordava: “E l’è passà tantu temp e tucc i me ricordi ‘in restà sensa cà, van in giir cunt el vént… E l’è inûtil cercà de fai viff ancamò, i ricordi ‘in passà…”. Clima musicale molto più sostenuto nella successiva I rivultèi de Brixton, rivisitazione brianzola del celebre brano dei Clash: con una traduzione molto vicina all’originale, è uno degli esperimenti meglio riusciti del disco (“Quand che pìchen al to portòn come te vègnet fö? Cunt i man in sü la crapa o sul grilèt del tó canòn? Pudì picà, pudì pestà… Pudì anca sparà, oh oh, i rivultèi de Brixton…”). Egregiamente riuscita e carica di pathos anche Zyngher, traccia mutuata da Gypsy di Suzanne Vega e che dà il titolo all’intero disco: “Ma la nott l’è la catedral ‘nduè ricugnùssum ul segnal, adèss sèmm pü stranieri, sèmm una parte del total… Uh, tégnum ‘mè un fiulìn che’l vör minga durm, inscì pödi scaldamm cuciada dentar de ti…”.  Si torna agli inediti di Monguzzi con L’è minga vera, canzone in puro stile cantautorale che a suo modo parla d’amore e che ovviamente funziona alla perfezione grazie anche a un arrangiamento ricco di chitarre acustiche ed elettriche: “L’è minga vera e mi sun chi a spetatt, inscì quand ti te turnarè farèmm tasè l’invidia, e lassarem el mund föra la porta, e vardarèmm la lüna che la camina, e questa pora stela presunera, e tutt ul rest l’è minga vera…”. Fenomenale pure la resa non facile né scontata del celeberrimo Folsom Prison Blues di Johnny Cash, che per l’occasione si italianizza e diventa San Vitùr Blues: “Sun chi su la mia branda e vàrdi pasà i tram, ma pödi minga vardà ul sù da tanti ann… Son dent a San Vitùr e ‘l temp el pasa mai e i discurs che fa la gént pödi dumà ‘scultài…”. La conclusione del disco è affidata alla Preghiera del làder, che con buona probabilità è la miglior composizione dell’intero lavoro, oltre che una delle canzoni più profonde e meglio riuscite dell’intera carriera di Monguzzi. Una ballata introspettiva con un testo davvero ben scritto, che pone l’attenzione sulle persone che si sentono più emarginate e che ricorda certe atmosfere di Portavèrta (ad esempio Tempi difficili) quanto alcuni episodi dei Mercanti di Liquore (Senza titolo per dirne una): “Signùr su no se basta dì che me despiàss, su no se sunt in temp ammò a scüsass, te ghe resòn, ghe vör propri un bel talent a s’cèppà i finester e pö lamentass del vent, ma i tò fioeu ti è fa un po’ cumplicàa, perduna anca quei ch’inn vegnù mà, quei ch’inn burla föra de la cesta, l’è l’unica manera de salvài, l’è l’unica vittoria che ghe resta…”.

Quelle di Lorenzo Monguzzi sono canzoni zingare – come suggerisce il titolo del disco – proprio per la loro capacità di trasformarsi e smarcarsi dagli originali in lingua inglese pur mantenendo una loro autonomia e integrità, sconfinando in ambiti più ruspanti e popolari, ma non per questo privi di fascino. Canzoni che con la scelta del dialetto finiscono per imbastardirsi un po’ nel linguaggio più meticcio rispetto alle versioni originarie, contaminandosi grazie agli arrangiamenti proposti e agli strumenti scelti per suonarle. Canzoni che adesso, complice ovviamente anche la sempre mirabile e profonda voce di Lorenzo, vivono di vita propria e sono in grado di correre libere verso nuove terre senza confini né latitudini di riferimento. Canzoni zingare, per l’appunto, come il loro autore, sempre pronto a mettersi in gioco e a sperimentare idee e soluzioni linguistico-sonore mai banali né scontate.

Matteo Manente

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