“Shahrazād” – “Febbre” di Jonathan Bazzi. Un viaggio nei ricordi e dentro la paura, fino a toccarne il fondo, per poi risalire

0

«Tre anni fa mi è venuta la febbre e non è più andata via.
11 gennaio 2016.
Trentun anni non ancora compiuti.
Torno dall’università: è ora di pranzo ma non ho fame.
Cos’hai?
Non mi sento tanto bene, forse mi sta venendo la febbre.
Mi metto sul divano, non riesco a leggere.
La febbre mi viene.
Non va più via».

A cascata, a gradini, a precipizio. L’incipit di Febbre, il romanzo di esordio di Jonathan Bazzi, pubblicato da Fandango nel 2019 e finalista al Premio Strega, fa scendere il lettore bruscamente nella storia. Questo stile secco, contrappuntato, fatto di frasi brevi e brevissime, si ritrova in tutto il libro che si presenta come un lungo flusso di coscienza, una confessione del narratore ai lettori.

Si tratta di un’autobiografia in cui il narratore si mette a nudo e racconta la propria vita, a partire dalla febbre e dalla scoperta di essere sieropositivo. L’HIV è lo specchio attraverso cui lo scrittore riguarda la sua vita passata – l’infanzia a Rozzano, con i suoi ricordi amplificati, l’adolescenza, il primo amore, la ribellione, l’omosessualità non come trauma, ma come consapevolezza, i tarocchi, la scuola a Milano, l’ostacolo della balbuzie, la meditazione e lo yoga, l’università – e proietta il suo presente, la sua personale lotta per la convivenza con il virus.

«Il mondo va avanti anche se io sono in pericolo – Non fare la vittima. Ma è vero: per ogni malato la sua condizione è un evento assoluto. L’enigma che dovrebbe fermare il corso del tempo, la vita degli altri. La malattia recinta, scinde, confina chi ne è portatore in una sfera a parte – egoista, impaurita – , lo riporta nell’io-me primordiale che non vede altro che se stesso».

Più che un libro sul coraggio, Febbre è un libro sulla paura che – come scrive il narratore – «non è sempre qualcosa di brutto». Paura dei litigi ascoltati da bambino, paura degli intrusi; paura di leggere davanti ad altri, paura della nonna quando si traveste; paura delle incertezze sulla propria sessualità, paura degli ospedali; paura di nascondersi, paura di sopravvivere.

È la paura che sta al centro. La febbre che non si abbassa, l’ipocondria alimentata dal web: «Ho paura, inizio ad avere paura davvero ». Poi gli esami e la febbre che «c’è ancora, non è passata». Ospedali, accettazioni, attese: gli esiti tardano ad arrivare ed è la paura a prendere il sopravvento. «Quando si ha paura davvero, la paura anestetizza anche se stessa. Non si sente più niente».

Filo rosso del libro, la paura ritorna, nell’infanzia come nell’età adulta del narratore. Ritorna e diventa ossessione.

Come ritornano, nei capitoli che alternano passato e presente, i personaggi del libro: la nonna Lidia, il nonno Biagio – che alza le mani e fa paura –, la zia Tata, la nonna Nuccia, il nonno Pier, il papà Roberto – padre e uomo incostante – e la mamma Tina, che è la forza fatta persona, la determinazione in cui Jonathan vorrebbe trasfigurarsi per vincere la paura. (A volte si ha l’impressione che questo libro si una lettera alla madre  alla quale il narratore rivolge spesso domande in prima persona: «Mamma, il lavoro era un alibi, una scusa? / Hai cercato di dimenticarmi? / Nella mia faccia vedevi quella di mio padre? »).

Se questi personaggi appartengono alla storia del narratore, al suo passato, Marius è il tempo presente, colui che – insieme a Tina – ha il compito di accompagnare Jonathan attraverso la paura che lo immobilizza. «Al mattino, quando suona la sveglia, ho paura di rivederlo, di parlargli, di sentire la sua voce di nuovo: ho paura di non essere all’altezza di questa sceneggiata che continua a ritenermi destinato alla vita, ho paura di non riuscire più a fingere.»

Raccontato in prima persona e in un modo diretto e crudo, il romanzo è totalizzante e rapisce il lettore che ne diventa ostaggio. Più cresce l’ansia del narratore, più il lettore è avviluppato nel vortice dei suoi pensieri e delle sue ossessioni. Così, il 20 aprile 2016 non è soltanto «il giorno più importante della mia vita – scrive Jonathan – Quello in cui mi sto salvando grazie a mia madre e al mio fidanzato», ma è anche la svolta della storia, quella che porta alla risalita. Con la febbre e la stanchezza, si abbassa anche la paura e torna a essere possibile pensare al domani: «È difficile trovare il modo di gioire del bene più grande. Come si celebra il momento nel quale capisci che ti aspetta ancora il futuro?»

L’AUTORE – Jonathan Bazzi è nato a Milano nel 1985. Cresciuto a Rozzano, estrema periferia sud della città, è laureato in Filosofia. Appassionato di tradizione letteraria femminile e questioni di genere, ha collaborato con varie testate e magazine, tra cui Gay.it, Vice, The Vision, Il Fatto.it. Alla fine del 2016 ha deciso di parlare pubblicamente della sua sieropositività con un articolo (“Ho l’HIV e per proteggermi vi racconterò tutto”) diffuso in occasione della Giornata Mondiale contro l’AIDS.

Claudia Farina

Share.

L'autore di questo articolo

Claudia Farina

È la più piccola dei flâneurs, con una chioma ribelle e un sacco di sogni. Fin da bambina innamorata del racconto e delle parole, saltella tra una storia e l’altra, tra la pagina e la vita. Laureata in Lettere Moderne, è alla ricerca costante di nuove ispirazioni e di luoghi dove imparare. La tesi sulla narrazione nella musica di Wagner è stata un colpo di testa (e un colpo di fulmine!). Suona il clarinetto da (un po’ meno di) sempre, ama la musica, l’amicizia quella vera, la natura, lo stupore e la Bolivia, che porta nel cuore. Crede negli incontri che cambiano la vita e la rendono speciale, come quello con Il Flâneur! Pensa molto (forse, troppo). Le piace viaggiare e scoprire il mondo, fuori e dentro i libri. Nella scrittura si sente a casa ed è convinta che la cultura, passione ribelle, sia davvero in grado di cambiare il mondo.