Lo avevamo lasciato fra le stanze desolate del Moonlight Motel con il protagonista della canzone – molto probabilmente uno dei due eterni ragazzi di Thunder Road e Born to run alla fine della propria corsa – che, assalito dalla malinconia per il tempo passato e per una storia d’amore rimasta solo fra i ricordi di quelle pareti, si versava un goccio di Jack nel parcheggio vuoto del motel, con gli echi e le ultime note di Western Stars che sfumavano in un silenzio malinconico che sapeva di bilanci di una vita ormai venuti a galla e coi quali si erano fatti i conti da un pezzo. A distanza di poco più di un anno lo ritroviamo in splendida forma circondato nuovamente dalla sua band, dagli stessi Blood Brothers di una vita, mentre fanno quello che da sempre gli riesce meglio: suonare e cantare divertendosi come se fosse la prima volta, come se il tempo non fosse mai passato in questi quaranta e passa anni di scorribande lungo le highways americane: eppure gli anni si fanno sentire per tutti e gli amici iniziano a perdersi lungo il cammino, ma proprio quando la malinconia sembrerebbe poter prendere il sopravvento e determinare così l’umore delle nostre giornate, ecco arrivare l’energia del rock e la sua forza salvifica che non ha mai tradito le aspettative in tutti questi anni di onorato servizio alla causa… e il nuovissimo Letter to you ne è l’ennesima dimostrazione!
Il tanto atteso ritorno di Bruce Springsteen con la E Street Band si chiama per l’appunto Letter to you, un disco di inediti nel quale il Boss – dopo anni di progetti acustici, teatrali e psicoanalitici, da Western stars allo spettacolo di Broadway passando per l’autobiografia Born to run – torna alla sua dimensione più naturale e congeniale, quella del rocker che a suon di Telecaster e testi mai scontati ci racconta di se stesso e delle sue sensazioni sulla vita e sul mondo, non nascondendo tutta la malinconia per il tempo trascorso e gli amici persi, ma allo stesso tempo facendoci assaporare ancora una volta la potenza e la contagiosità solare della sua musica suonata con gli amici di sempre, radunati dopo tanti anni in quella “casa delle mille chitarre” dove è sempre bello ritrovarsi e rifugiarsi.
Per questo nuovo progetto discografico, Springsteen si serve di dodici lettere – da cui il titolo del primo singolo e dell’intero lavoro – indirizzate ai fans che lo ascoltano e a se stesso (Letter to you), a un mondo sempre più impazzito con i suoi demagoghi pronti a imbonire la gente (Rainmaker), ma anche e soprattutto alla sua band riunita per l’occasione e alla forza della loro musica suonata nuovamente tutti insieme all’interno di una stanza (Burnin’ train, The power of prayer, House of thousand guitars e Ghosts, secondo singolo estratto dal disco). Visto l’inesorabile scorrere del tempo e della malinconia che a volte ci assale quando ci guardiamo alle spalle – altro tema cardine del disco e in generale degli ultimi lavori del Boss, che apre e chiude tutto anche questo nuovo racconto – non possono mancare uno sguardo e un pensiero ai tanti amici persi lungo la strada (One minute you’re here, Last man standing e I’ll see you in my dreams). Allo stesso tempo, o forse proprio per esorcizzare e scacciare certi fantasmi del passato, il Boss recupera dai cassetti della memoria tre canzoni scritte a inizio carriera, quando era ancora un giovane smilzo songwriter senza soldi in cerca di fortuna e di un contratto discografico: Janey needs a shooter, If I was a priest e Song for orphans, non erano mai state pubblicate ufficialmente prima di quest’album e per l’occasione vengono risuonate da cima a fondo con l’apporto di una E Street Band davvero su di giri, perfetta nell’accompagnare e donare freschezza a testi dalle forti influenze dylaniane scritti ormai quasi cinquant’anni fa.
Prima di far esplodere tutto il suono e la forza inconfondibile della E Street Band catturata in presa diretta all’interno dello studio di registrazione personale del Boss, c’è ancora il tempo per un’ultima soffusa e onestamente inaspettata ballata acustica che apre il nuovo album: One minute you’re here, che risente molto delle ambientazioni di The Ghost of Tom Joad, è il vero ponte fra Western Stars e questo nuovo lavoro full band, l’anello di congiunzione che lega gli assenti coi presenti (non a caso vengono citati nel testo elementi come “Autumn carnival on the edge of town” e “Red river running along the edge of town” a ricordare i musicisti della band scomparsi in questi anni), ma soprattutto le due anime musicali di Springsteen, fra le quali il Boss del New Jersey ha danzato allegramente in questi ultimi anni come mai aveva fatto prima. Su un tappeto di chitarre acustiche e suoni minimali, arriva la voce inconfondibile di Springsteen a sussurrarci che “One minute you’re here, next minute you’re gone”, prima di sfociare in un ritornello che sintetizza tutta la malinconia per chi non c’è più unita alla certezza di abbracciare forte chi è rimasto: “Baby, baby, baby I’m so alone / Baby, baby, baby I’m coming home…”.
Quindi è la volta del tanto sbandierato e preannunciato ritorno al rock, quello potente e senza fronzoli che ha reso celebre l’E Street Band in tutto il mondo: il singolo Letter to you è la sintesi di quel suono che parte dagli anni ’70 di Born to run e arriva al nuovo millennio con The Rising, Magic e Wrecking ball, quel sound muscolare ma mai aggressivo nel quale è facile riconoscere il sapore di casa: “Things I found out through hard times and good / I wrote ‘em all out in ink and blood / dug deep in my soul and signed my name true / and sent it in my letter to you… / In my letter to you I took all my fears and doubts / in my letter to you all the hard things I found out / in my letter to you all that I’ve found true and I sent it in my letter to you…”.
Con la successiva Burnin’ train si decolla veramente per quattro minuti rock and roll allo stato brado, grazie ai campanellini ma soprattutto alle chitarre dell’immancabile Steve Van Zandt che, sulla scia dei suoi lavori solisti coi Disciples of Soul, riproduce lo sferragliare di un treno lanciato a tutta velocità sulle rotaie della vita di due che sanno di non aver più molto tempo a disposizione. Si tratta del treno del rock, che per evidenti assonanze passa prima dalla stazione di una già nota Lucky Town per poi far battere il piede a tempo mentre si ritrovano la forza e la grinta necessarie per continuare il viaggio verso quella Long walk home che riecheggia fra le note del solo di chitarra finale: “Zero’s my number, time is my hunter / I wanted you to heal me, but instead you set me on fire / We were out over the border, I washed you in holy water / We whispered our black prayers and rose up in flames… / Take me on your burnin’ train…”.
Sempre per celebrare la forza di una band imprescindibile per la storia di Springsteen e per ricordare i bei tempi vissuti insieme con spensieratezza, nel disco trovano posto House of thousand guitars, Ghosts e The power of prayer, caratterizzate tutte da quel mix perfetto di chitarre (Stevie Van Zandt e Nils Lofgren), basso (Garry Tallent), batteria (Max Weinberg), pianoforte (Roy Bittan), hammond (Charlie Giorndano) e sax (Jake Clemons), che rappresentano da sempre il cuore pulsante e il marchio di garanzia della E Street Band. Esempio lampante di questo suono è The power of prayer, che inizia con un giro di piano tipico tanto di certi must degli anni ’70 (Backstreets o Incident on 57th street per intenderci) quanto di alcuni episodi più recenti (Girls in their summer clothes e I’ll work for your love su tutte), per poi far spazio a tutti gli altri strumenti, compreso un poderoso solo di sax come ai vecchi tempi quando c’era ancora Clarence “Big Man” Clemons a soffiare per tutti noi. Il testo racconta il senso di amicizia, amore e libertà respirato nelle notti d’estate di un tempo che fu, quando c’era sempre un po’ di musica nell’aria: “Summer nights, summer’s in the air / I stack the tables with the chairs / It’s closing time and you’re standing there / baby, that’s the power of prayer…”
Sempre di musica e di rapporto con la propria band e il proprio pubblico racconta la splendida House of thousand guitars, che parte con una intro pianistica stratosferica di un Roy Bittan sempre sugli scudi, un riff che profuma di Jungleland lontano mille miglia, tanto che non a caso tra i primi versi cantati da Bruce compaiono le parole “churches and jails…”! Il brano diventa poi più muscolare e perfetto baricentro di tutto il disco: “Here the bitter and the bored wake in search of the lost chord / that’ll band us together for as long as there’s stars / here in the house of a thousand guitars… / Well, it’s alright, yeah, it’s alright / meet me darling come Saturday night / brothers and sisters, wherever you are / we’ll meet at the house of a thousand guitars…”.
Ghosts invece è il classico brano pensato per la dimensione live, con i suoi riff in stile Tom Petty & The Heartbreakers e i suoi cori adatti alle masse ondivaghe sotto i palchi di tutto il mondo: “I hear the sound of your guitar / coming in from the mystic far / the stone and the gravel in your voice / come in my dreams and I rejoice… / It’s just your ghost moving through the night / your spirit filled with light / I need, need you by my side / your love and I’m alive / and I can feel the blood shiver in my bones / I’m alive and I’m out here on my own / I’m alive and I’m coming home…”. Per tutto questo bisognerà aspettare ancora, nel frattempo impariamoci il testo a memoria, che al momento giusto faremo tremare San Siro e… “by the end of the set we leave no one alive!”.
Allo stesso protagonista a cui son dedicati i primi versi di Ghosts (ovvero George Theiss di Castiles, il primo gruppo di Springsteen a fine anni ‘60), fa riferimento Last man standing, che invece parte acustica per poi evolversi in una rock ballad classica anche qui con riferimenti a Tom Petty, ai Byrds e agli accordi sulle Rickenbacker a 12 corde, sostenuta poi da tutto il resto della band e da un hammond intrecciato al piano che ricama pregevoli effetti sonori. Il brano è stato il primo ad esser stato composto per questo disco e parte dalle considerazioni di Springsteen sul fatto che sia rimasto l’unico componente in vita del suo primo gruppo in assoluto, partendo dai ricordi di quegli anni: “Faded pictures and an old scrapbook / faded pictures that somebody took / when you were hard and young and proud / back against the wall running raw and loud…”. Il Boss spiega cosa significhi fare musica rock, stare in un gruppo e rapportarsi col pubblico attraverso tanti dettagli sparpagliati qua e là nel testo, ma soprattutto descrive ancora una volta come ci si senta da sopravvissuti di un’epoca intera: “Rock of ages, lift me somehow / somewhere high and hard and loud / somewhere deep into the heart of the crowd / I’m the last man standing now…”.
Musicalmente, avviene lo stesso crescendo tipico delle ballate rock anche con la conclusiva I’ll see you in my dreams, che si lega perfettamente al tema degli amici andati ma che ritroviamo ogni volta che li pensiamo: “The road is long and seeming without end / the days go on, I remember you, my friend / and though you’re gone, and my heart’s been empty, it seems / I’ll see you in my dreams…”. Il brano è la perfetta chiusura del discorso avviato con One minute you’re here e non a caso è messo alla fine dell’album, come a segnare l’alfa e l’omega di tutte le considerazioni più o meno malinconiche sui fantasmi e gli amici persi lungo la via cantate in questo nuovo Letter to you: “I’ll see you in my dreams / when all our summers have come to an end / I’ll see you in my dreams / we’ll meet and live and laugh again / I’ll see you in my dreams, yeah up around the river bend / for death is not the end and I’ll see you in my dreams…”.
Rainmaker è il pezzo politico del lotto, quello che inevitabilmente, durante questa autocelebrazione della musica del Boss, tiene accesi i riflettori su quello che avviene nel mondo al di fuori dei muri della “casa delle mille chitarre”. Il brano parla della figura di un demagogo che racconta bugie (chi sarà mai?!?), che si spaccia per l’uomo dei miracoli e per questo è seguito a occhi chiusi dai suoi sostenitori (“Rainmaker says white’s black and black’s white / says night’s day and day’s night / says close your eyes and go to sleep now / I’m in a burning field unloading buckshot into low clouds…”), uno che in House of thousand guitars veniva definito come “The criminal clown has stolen the throne / he steals what he can never own…”. Musicalmente il pezzo parte con una slide-guitar rallentata in un’atmosfera acustica, salvo poi esplodere nel ritornello e proseguire con degli “stop and go” durante tutto il brano che ne fanno un gioiello a tutti gli effetti: “Rainmaker a little faith for hire / Rainmaker the house is on fire / Rainmaker take everything you have / sometimes folks need to believe in something so bad, so bad, so bad / they’ll hire a rainmaker…”
Infine, una menzione a parte va fatta per Janey needs a shooter, If I was a priest e Song for orphans, le tre ballate storiche tirate fuori dai cassetti e finalmente portate a nuova luce con un arrangiamento elettrico sontuoso: tra organo, armonica a bocca e chitarre, i tre pezzi mostrano l’anima pura del songwriting di uno Springsteen ancora alle prime armi, molto verboso nei testi e influenzato in maniera netta dal primo Bob Dylan, così come musicalmente, negli arrangiamenti della E Street Band, emergono chiaramente i riferimenti al Dylan della svolta elettrica di metà anni ’60 con gli album Highway 61 revisited e Blonde on blonde. Scritte tra il 1971 e il 1972 e provinate soltanto a inizio carriera, queste tre canzoni non sono mai entrate a far parte dei primi dischi del Boss (Greetings from Asbury Park e The wild, the innocent & the E Street shuffle del ’73), sebbene Song for orphans contenga in sé alcuni riferimenti armonici presenti nella successiva For you e Janey richiami, fra cantato e armonica, certe outtakes dell’epoca di Darkness on the edge of town (in particolare la versione di Racing in the street ’78). Ad ogni modo, superata alla grande la prova degli anni, queste canzoni calzano a pennello con quelle di più recente scrittura e si inseriscono perfettamente nel viaggio introspettivo sulla propria vita in musica compiuto da Springsteen con questo lavoro, regalando immagini e perle lessicali di altissimo livello: “Well, sons they search for fathers, but the fathers are all gone / the lost souls search for saviors, but saviors don’t last long…”.
Letter to you non è affatto un commiato né l’ultimo canto del cigno per Bruce Springsteen & The E Street Band, ma piuttosto è l’istantanea migliore di se stesso, la lettera dell’amico di sempre che ci scrive attraverso dodici missive per raccontarci la sua avventura musicale nonché umana e per trasmetterci ancora una volta un po’ di quell’energia che per il momento non può regalarci dal palco di un tour rinviato a data da destinarsi per via dell’emergenza sanitaria in atto. Pertanto, bentornato Boss… e grazie per queste nuove lettere, non tarderemo a risponderti appena arriverà la chiamata!
Matteo Manente