«I ricordi restano sempre dove li abbiamo lasciati: noi ci alziamo, andiamo, richiamati a tavola dalle madri, e i ricordi restano sugli scalini. Almarina non aveva ricordi così ed era stata vestita di carta, ma possedeva la luce del futuro negli occhi: e il futuro comincia adesso».
Pubblicato per Einaudi nel 2019, Almarina di Valeria Parrella è entrato nella sestina finale del Premio Strega 2020. Strutturato in tre parti, il libro si apre con un Prologo – che vale la pena di rileggere alla fine -, si conclude con un Epilogo, e in mezzo concentra la storia. Due sono le protagoniste: Elisabetta Maiorano e Almarina Luchian, insegnante di matematica e allieva, italiana e romena, vedova e fuggiasca, cinquanta e sedici anni, donne in divenire che cambiano aiutandosi a vicenda. L’incontro delle loro storie nel carcere minorile di Nisida crea l’intreccio narrativo.
Raccontata in prima persona da Elisabetta, la storia è ambientata tra Napoli, Nisida – isola-vascello di fronte alla città – e i ricordi nascosti negli oggetti: nella borsa, nelle tasche, dentro un foglio, dietro le palpebre abbassate, in un dolce natalizio.
«Della mia borsa faccio un sacco, l’ammacco, la schiaccio, ce la faccio entrare [nell’armadietto], do la mandata e vado. Dentro ci lascio la solitudine di figlia unica, l’orecchio dolente di una malattia esantematica, l’ombra che mi terrorizzata al pomeriggio, proiettata sul muro della stanzetta. Quella risposta inopportuna per cui mia madre non mi parlò per giorni. Tenersi le mani addosso quando non le vuoi davvero, volere di più le mani addosso e non saperle chiedere […]».
Sono ricordi dolorosi, che parlano di violenze subite e reiterate, di padri che fanno paura, di strappi, di tentativi falliti, di fughe, di addii e di abbandoni. Sono anche ricordi teneri, di notti stellate, di legami, di fratelli portati in salvo.
Luogo del presente che si fa futuro, Nisida rappresenta il punto di fuga dai ricordi, un sollievo temporaneo dalla città caotica e giudicante e dalla realtà che nega la speranza: «Qui dentro si sta bene, non c’è motivo di andar fuori, scendere nella città, tornare a casa». Ma è un carcere, e i ragazzi che ci vivono, seppur protetti e in un certo senso custoditi, sono detenuti per crimini che hanno commesso in città. Il carcere è «un’altra parte, inconciliabile con la promessa che ci fecero da bambini: che la vita non avrebbe fatto paura, e non saremmo rimasti mai soli».
Elisabetta con la geometria, Aurora che assegna temi di carattere personale, il comandante che organizza partite di pallavolo e porta i ragazzi a ripulire la scarpata dalle erbacce coi falcetti, sono incontri provvisori dentro il carcere, figure temporanee che tengono al sicuro ragazzi di passaggio. Per Elisabetta, però, Almarina è diversa. Per lei vale la pena di lottare perché non sia un affetto passeggero o uno dei ricordi dolci da chiudere in borsetta, ma perché resti.
«Io mi sono legata ad Almarina così, mentre guardavamo il mare, e le ho raccontato che mio marito era un magnifico nuotatore».
Con il suo procedere chiaro e pulito, con le sue immagini crude sublimate nella poesia, nel mito o nella fiaba, con il suo tono profondo e pieno di cura, Almarina è un libro che lascia il segno. Una di quelle storie che si leggono piano, centellinando le frasi e alzando gli occhi alla fine di ogni paragrafo per far scendere meglio le parole e tenersele.
Claudia Farina