“Shahrazād” – “Resto qui” di Marco Balzano, una storia di resistenza

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«Mi voltavo e guardavo il paese, piccolo su in alto, e mi invadevano gli stessi sentimenti di Erich: che era mia quella terra, che nessuno mi poteva cacciare, che non potevo rimanere inerte a guardare».

In Resto qui, pubblicato da Einaudi nel 2018 e finalista al Premio Strega, Marco Balzano racconta la storia di una donna, di una famiglia, di un paese intero che resistono. Ambientato tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta del Novecento in Sudtirolo, il romanzo traccia la parabola storica del paese di Curon, dall’avvento del fascismo agli anni del dopoguerra e oltre. Una storia di violenze, di espropriazioni, di arruolamenti e di fughe, di dolori comunitari e personali, di lotta e di pugni che si stringono cacciando via le lacrime.

«E io odio piangere. Odio piangere perché è da idioti, e perché non mi consola. Invece bisogna curarsi, stringere i pugni anche quando la pelle delle mani si copre di macchie. Lottare a prescindere. Questo mi ha insegnato tuo padre».

Voce narrante della storia, Trina è una ragazza che si diploma nel 1923, l’anno successivo alla marcia di Mussolini su Bolzano, in cui i fascisti bruciarono gli edifici pubblici, cacciarono i proprietari dei negozi, ne cambiarono le insegne. E così in tutto il Sudtirolo, anche se – come dice l’autore nella nota finale – di questa storia si conosce poco: Mussolini impose l’italianità, occupando, licenziando, soffocando l’identità e la cultura locali.

«I fascisti intanto occupavano non solo le scuole, ma i municipi, le poste, i tribunali. Gli impiegati tirolesi venivano licenziati in tronco e gli italiani appendevano negli uffici cartelli con scritto Vietato parlare tedesco e Mussolini ha sempre ragione. Imponevano disposizioni di coprifuoco, le adunate il sabato pomeriggio per il passaggio del podestà, le loro feste comandate».

Figlia di contadini, Trina sogna di insegnare. È qui che comincia la sua resistenza, nella determinazione di insegnare a leggere e scrivere. È una resistenza intellettuale, che diventa presto una resistenza fattuale e politica quando  Trina accetta di diventare insegnante clandestinaIl prete mi assegnò una cantina a San Valentino. Ci andavo verso le cinque del pomeriggio ed era già buio. Oppure la domenica prima della messa e era sempre buio».)

Contadino e orfano – selvatico e attaccato alla terra – Erich è il marito di Trina. Resistente per natura, e resistenti si può nascere. Con lui, Trina conosce la forza di non cedere ai pensieri, di non guardare indietro, semmai in basso, verso la valle. Con Erich, impara a restare e a resistere.

«-Perché vuoi stare qui se rimarremo senza lavoro se non potremo più parlare tedesco, se distruggeranno il paese?

-Perché qui ci sono nato, Trina. Ci sono nati mio padre e mia madre, ci sei nata tu, ci sono nati i miei figli. Se ce ne andremo avranno vinto loro».

È l’attaccamento che porta alla resistenza. L’attaccamento al proprio paese, al proprio lavoro, alle proprie radici, alla propria identità. Un attaccamento che si estende alla coppia e che permette a Erich e Trina di resistere alle lacerazioni famigliari, alla guerra e al tempo. Le pagine che descrivono la fuga sulle montagne sono intense e rappresentano forse il cuore del libro: «Della vita nelle capanne, di Erich che aveva disertato, di me che avevo sparato ai tedeschi non mi chiese niente», racconta Trina riferendosi all’incontro con sua madre, avvenuto dopo. Sì, perché c’è un dopo. Un dopo alla resistenza e alla guerra. Si tratta del fantasma della diga, annunciata fin dall’inizio della storia, ma mai realizzata fino a  «Un giorno di gennaio del ’46. Una nebbia gelida galleggiava nell’aria. […] Infilammo gli scarponi e corremmo a vedere. Erich camminava trafelato, io guardavo la neve. Avevano ripreso a scavare».

Con la costruzione della diga riprende anche – e più forte – l’attaccamento. Le ultime immagini del libro sono forti e vivide come il campanile in copertina, sommerso per metà dall’acqua, ultimo testimone di un paese che ancora resiste.

Claudia Farina

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L'autore di questo articolo

Claudia Farina

È la più piccola dei flâneurs, con una chioma ribelle e un sacco di sogni. Fin da bambina innamorata del racconto e delle parole, saltella tra una storia e l’altra, tra la pagina e la vita. Laureata in Lettere Moderne, è alla ricerca costante di nuove ispirazioni e di luoghi dove imparare. La tesi sulla narrazione nella musica di Wagner è stata un colpo di testa (e un colpo di fulmine!). Suona il clarinetto da (un po’ meno di) sempre, ama la musica, l’amicizia quella vera, la natura, lo stupore e la Bolivia, che porta nel cuore. Crede negli incontri che cambiano la vita e la rendono speciale, come quello con Il Flâneur! Pensa molto (forse, troppo). Le piace viaggiare e scoprire il mondo, fuori e dentro i libri. Nella scrittura si sente a casa ed è convinta che la cultura, passione ribelle, sia davvero in grado di cambiare il mondo.