LECCO – È proprio il caso di dirlo – per usare un’espressione tanto cara al buon Guccini – che il nuovo Indiani & Cowboy di Cisco è a tutti gli effetti un disco tra la Via Emilia e il West: un album di storie italiane prodotte e suonate oltreoceano, vicende nostrane filtrate attraverso la sensibilità del cantautore emiliano e vestite del sound tipicamente texano grazie alla produzione fatta ad Austin da Rick del Castillo. Una sfida musicale nuova per l’ex vocalist dei Modena City Ramblers, che in tanti anni di carriera non si era mai spinto fino ad ora verso suoni così tex-mex: dopo l’amore per l’Irish-folk degli esordi, la celtica patchanka, le influenze latino-americane, quelle balcaniche e no global di inizio millennio, ecco il suono della frontiera tra Messico e Stati Uniti, che arriva non a caso in un’epoca storica in cui confini, muri e divisioni sono tornati purtroppo all’ordine del giorno e agli onori delle cronache.
Già dal titolo, Indiani & Cowboy rimanda all’epica della frontiera e dà le coordinate delle nuove intenzioni artistiche di Cisco: la volontà di raccontare la società odierna attraverso i suoi contrasti e le divisioni di tutti i giorni, un disco sul delicato rapporto tra il bene e il male, sui buoni e i cattivi e quindi, in ultima analisi, sugli indiani – ovvero i buoni esempi come Don Gallo – che sopravvivono sempre più difficilmente e i cowboy – cattivi esempi come lo Sceriffo dell’omonima canzone – che dettano legge senza capire né ascoltare le ragioni di chi sta dalla parte opposta. Un lavoro nuovo di zecca per l’ex voce dei Modena, che torna con dieci brani freschi, attuali, ben scritti e cantati, con un sound rinnovato e per lui inedito, pieno zeppo di chitarre slide, dobro, trombe e tutto quel che si porta dietro quel mondo musicale; un sound italo-americano che trova la sua massima sintesi ed espressione nella conclusiva Bianca, ballata in dialetto emiliano dedicata alla figlia del cantautore ma impregnata allo stesso tempo di chitarre e arpeggi che portano dritti dall’altra parte dell’oceano: “E poi c’è il nero che è il colore della notte con il giallo delle stelle negli occhi, e poi c’è il rosso che è il colore della passione e infine Bianca che sei tu, è il tuo nome…”.
Sempre per restare in tema di indiani e cowboy che vivono tempi non propriamente sereni, ecco l’arrembante Lo sceriffo – che sulle note indiavolate di un Dylan ultima maniera potrebbe essere allo stesso modo la parodia di Salvini o Trump, uno che “arriva solo con la stella sulla giacca, le pistole sempre pronte caricate per sparare, non ragiona e non capisce più dov’è il bene ed il male” – a cui si contrappone Adda venì Baffone, invocazione ai tempi che furono e incarnazione metaforica delle speranze di un cambiamento politico respirato a pieni polmoni a inizio anni ’90, poi naufragato nella famigerata Seconda Repubblica: “E continuiamo a fare finta di nulla ascoltando il telegiornale, aspettando la notizia giusta di un baffone pronto a tornare, come se fosse arrivata la guarigione di ogni nostro male…”.
Di questi tempi strani parla l’ironica ma neanche troppo Siete tristi, brano bellissimo in cui si mettono alla berlina molti dei comportamenti ridicoli che abbiamo tutti quanti: “Siete tristi come quello che pensate, le cose che scrivete, i libri che comprate e alla fine non leggete… siete tristi come i tempi in cui viviamo con lo sguardo incollato sul cellulare stretto nella mano, tristi come quello che postiamo, come le foto che scattiamo, come tutta quella merda che ascoltiamo…”. L’unico antidoto a questi tempi oscuri è resistere strenuamente come L’erba cattiva, che cresce nonostante il catrame e il cemento che la sovrasta e diventa la metafora di chi non vuole sottostare al processo di omologazione in atto: “Sono l’anomalia, l’ingranaggio che non funziona, l’indesiderato che dove metti sempre stona… sono la pianta che buca l’asfalto, io sono i fili dell’erba cattiva…”.
A proposito di “indiani” che resistono come l’erba cattiva del pezzo appena citato, nel nuovo album di Cisco trovano spazio altre canzoni molto significative, come i ritratti delineati nelle omonime Guido Rossa – dedicata all’operaio e sindacalista ucciso dalle Brigate Rosse nel 1979 (“E’ la nostra morale che ci guida in questi giorni tristi, sono i nostri valori che fanno uomini veri…”) – e Don Gallo, prete di strada che tanto ha fatto per i diritti dei più deboli ed emarginati: “Allora alzo il cappello e benedico il Dio in cielo, lo specchio riflette il collare bianco, avvolge il respiro ma non toglie il fiato, l’abito non stringe l’uomo che ha dentro… c’è chi è morto per noi su una croce e chi ha lottato per far sentire la voce…”. In entrambi i casi si tratta delle tipiche canzoni a cui ci ha abituato Cisco nel corso degli anni, quelle canzoni di chi è cresciuto a pane e cantautori e sa che è sempre meglio partire dal racconto di singole storie per giungere a quella che Marino Severini dei Gang chiamerebbe la Grande Narrazione, il Grande Umanesimo che ancora una volta sarà la sola via di salvezza possibile per il nostro tempo.
In questa precisa direzione va anche Non in mio nome, un brano che nell’arrangiamento e nella struttura ricorda alcune cose dei Nomadi dei primi anni ’90: ritmiche sostenute, con chitarra elettrica e fisarmonica che si rincorrono sostenendo l’attualità del racconto di chi ha dovuto lasciare il Paese in cerca di una vita migliore “mentre il futuro scappa dalle mani, fugge veloce e non ritorna domani”. Ambientazione da film western, con un paesino deserto dal quale i protagonisti Carlo e Carlotta son fuggiti per non essere complici di quel decadimento, in attesa di un riscatto e di un cambiamento che, al contrario, avverrà proprio nel loro nome e grazie al loro contributo: “Carlo è partito un mattino di settembre, era stanco di sentirsi in attesa di destinazione, sospeso tra i sogni e gli schiaffi della vita, materiale di scarto di un mercato globale… Carlotta cammina sola nel mondo là fuori, piena di illusioni, di paura e dolore, splendida, buffa, delusa e irrequieta, ma ricca di vita e affamata d’amore…”.
Di contrasti fra buoni e cattivi, di eterna lotta tra bene e male parla Cowboy e indiani (da notare l’inversione non casuale rispetto al titolo del disco), con Cisco che sulle note di un motivo anche qui squisitamente morriconiano parteggia evidentemente per i secondi, dal momento che “è solo tramandando che il mondo vive”: “E allora portami, portami avanti, guidami, guidami avanti tra tutta questa gente e le sue voci, tra queste strade, le chiese e le croci, in questa storia di figli e di padri, in questa eterna lotta di cowboy e indiani…”. Un po’ di dolcezza e di malinconia affiorano in Porto con me, unica canzone d’amore del lotto e altra perla arricchita da archi, chitarre acustiche e slide in supporto alla voce sempre calda e avvolgente di Cisco: “Per sempre tuo e sempre con te, sembrava come ai vecchi tempi, ti addormentavi pian piano qui vicino a me ed è un ricordo lontano che porto con me… non ci credo ancora che finisca così, ciò che ami di più rimane sempre con te…”.
Nato grazie anche a una fortunata campagna di crowdfunding, il nuovo lavoro discografico di Cisco – ad esclusione della parentesi coi Dinosauri Cottica e Rubbiani, che compaiono qua e là come co-autori anche in questo album – è senza dubbio il migliore della sua carriera solista e segna un punto di passaggio molto importante per l’artista emiliano: dieci ottime canzoni arricchite da un sound inconfondibile che le rende particolari e godibilissime, sempre in perfetto equilibrio tra i classici pezzi di Cisco e qualcosa che, a livello musicale, era ancora da sperimentare e provare. Con Indiani & Cowboy l’Emilia di Cisco è andata direttamente a trovare l’America del West e della frontiera, quell’America che sembra tanto lontana da noi ma che in realtà è solo dietro l’angolo dei nostri comportamenti… e in questo clima di confusione e grigiore non è più così facile capire chi gioca a fare l’indiano e chi il cowboy: Cisco con le sue canzoni cerca di darci qualche suggerimento, ma a ciascuno poi tocca sellare il proprio cavallo e fare la sua parte, seguendo i propri modelli – siano essi indiani o cowboy – e scegliendo come sempre da che parte stare.
Matteo Manente