Massimo Priviero torna sulle scene discografiche con All’Italia, il nuovo album di inediti che riparte esattamente da quel “la puoi chiamare la storia di tanti, la puoi chiamare Italia di emigrazione” che cantava in La casa di mio padre, uno dei pezzi di punta del precedente Ali di libertà. Già, perché dopo trent’anni di onorata carriera a servizio del rock in formato canzone d’autore, Priviero ha scelto di dedicarsi a un progetto che cullava da tempo, molto vicino per sua stessa ammissione come intenti, approccio e tematiche allo Springsteen di The ghost of Tom Joad o all’Eddie Vedder di Into the wild: il nuovo capitolo discografico del rocker veneto è infatti un album prevalentemente acustico con canzoni legate fra loro da un sottile filo rosso narrativo, che conferisce al nuovo lavoro l’appellativo impegnativo ma più che meritato di concept-album come si faceva una volta. Il sottile filo rosso che lega i tredici episodi di All’Italia è il tema dell’emigrazione italiana a partire dall’inizio del ‘900 fino ai giorni nostri, del viaggiare come scelta ma soprattutto come necessità per sopravvivere, del doversi muovere da un lato all’altro del pianeta per scappare dalla fame o per trovare nuove vie di stare al mondo, facendo leva sulla forza e sul desiderio di riscatto più che sul compatimento o la commiserazione. Mettiamolo in chiaro fin da subito: All’Italia è un album strepitoso, acustico e potente allo stesso tempo, in biblico costante fra il Tom Joad di Springsteen e le Storie d’Italia dei Gang; un album intriso di sudore, fatica, lavoro, orgoglio per le proprie origini e tanta speranza, nonostante le mille difficoltà legate al fatto di dover esser stati migranti in terra straniera; un album ricco di Storia e di storie, come quelle dei microcosmi personali di tutti quegli italiani che dall’inizio del Novecento ad oggi sono emigrati per fame, miseria, disperazione o necessità, di chi è partito senza tornare e di chi è andato per poi fare ritorno al paese d’origine; un disco per chi ha intrapreso un viaggio e un cambiamento fisico o interiore anche “per la sola ragione del viaggio”, senza però mai dimenticare le radici da cui si proviene e con le quali alla fine, nel bene o nel male, si devono sempre fare i conti.
All’Italia parla di migrazioni ma non lo fa tirando furbescamente in ballo la politica né tanto meno i processi migratori in atto, poiché sarebbe stato fin troppo facile; il nuovo disco di Priviero è piuttosto il canto corale di un popolo, quello italiano, che a più riprese nella sua storia ha dovuto fare i conti con il fenomeno dell’emigrazione verso nuove terre, a partire proprio da quelle migliaia di veneti che dalla prima metà del Novecento salparono in direzione dell’America e in particolare dell’Argentina, come viene cantato nell’iniziale Villa Regina: “Il ragazzo è in piedi sulla riva del mare / si specchia nell’acqua e poi decide di andare / via dal pezzo d’Italia più dolce che c’è / Veneto Novecento più ventitré…”. L’intro è affidata a un’armonica e a una chitarra acustica che rimandano senza tanti scrupoli alle atmosfere di Tom Joad, poi la voce di Priviero porta di colpo l’ascoltatore al centro del racconto, definendo la storia di un ragazzo che ha lasciato la terra del Piave per imbarcarsi verso l’Argentina e il paese di Villa Regina; da qui scrive alla madre, raccontandole la nuova vita in terra straniera e rincuorandola che va tutto bene: “Mamma, mamma bacia i giorni miei quando il nuovo sole nascerà / c’è tuo figlio in terra d’oltremare sai, chiudi gli occhi e mi vedrai anche là...”.
All’Italia è allo stesso tempo il canto di tutti quei giovani che oggi, quasi un secolo dopo quei primi italiani emigrati in America in cerca di lavoro, devono lasciare ancora una volta la propria terra per assenza di opportunità e prospettive di un futuro da costruire, schiacciati troppo spesso da lavori precari e sottopagati nonostante un alto grado di istruzione e una formazione più che specializzata ottenuta negli anni: è il caso di almeno tre brani del disco – Alba nuova, London e Bataclan – ciascuno diverso per ambientazione, ma tutti accomunati dalla giovane età dei protagonisti cantati da Priviero.
Alba nuova tratteggia ciò che per moltissimi giovani di oggi è ormai la normalità, ovvero la necessità di lasciare dall’Italia per trovare all’estero nuove opportunità di crescita, il tutto nonostante una o più lauree e anni di studi specialistici: “Sono figlio di gente normale che la sfanga per quello che può / e per loro io sono come un raggio di sole a cui dar tutto quel che si può / settecento euro al mese al centro commerciale e ho studiato fino ai ventitré / e in aggiunta mi trattano anche un po’ male / me ne vado anche questo è un perché… sotto il cielo ci sarà pure un posto per me…”. London, scelta come primo singolo di tutto il lavoro, racconta con un arrangiamento più rockeggiante la vicenda di un altro dei tanti ragazzi che – sacrificando spesso anche gli affetti personali – sono partiti verso la capitale inglese, città multietnica e cosmopolita, meta prescelta per darsi una nuova possibilità di rinascita: “Partirò amor mio, quando l’alba mi sveglierà / London Town è il destino mio, lì il tuo bacio mi seguirà…”. Tra i tanti studenti italiani che hanno scelto l’Europa comunitaria come terra dove studiare, vivere e fare nuove esperienze di vita c’è anche Valeria Solesin, la giovane veneta vittima della strage terroristica al Bataclan di Parigi lo scorso anno: a lei e alla forza dei suoi ideali Priviero dedica la struggente e bellissima Bataclan, un’ipotetica ultima mail scritta dalla ragazza alla madre proprio un attimo prima di recarsi al locale dove avrebbe trovato la morte. Un brano intimo, delicato ma allo stesso tempo potentissimo, che cresce pian piano e mette i brividi nel finale, quando viene nominata proprio la sala da concerto dove è stata compiuta la strage: “Ok, mamma cara, baci dalla tua Valeria / dovrei già esser fuori ma sono ancora qui / ti chiamo domani adesso vado a un concerto / ho tutti i miei amici che mi aspettano lì / stacco un po’ la spina che certo male non fa / e faccio un po’ di festa fino a quando mi va / stasera voglio star bene e stare in mezzo al bacan / vado in un bel locale: si chiama Bataclan…”.
Nella girandola di chi è partito in questi anni c’è anche chi l’ha fatto per volontariato, o meglio, per mettere a disposizione le conoscenze acquisite in campo medico verso un paese molto più povero ed arretrato; è il caso del medico protagonista di Mozambico, che insieme a Bataclan è senza dubbio uno dei brani più emozionanti del disco: certo, la costruzione armonica della canzone richiama oltremodo Independence day di Springsteen, ma ciò non toglie un grammo di bellezza e profondità a una canzone e a una storia che racconta il lato migliore degli italiani all’estero, infondendo ottimismo e donando spiragli di un’altra umanità possibile: “Lo sai a volte mi domando se saprei tornare / ma davvero io lì non saprei che cosa fare / e a chi mi chiede oggi io che cosa sono / rispondo un medico migrante ed italiano… / Confesso a volte anch’io mi sento giù / ma imparo a vivere da chi vive di più… / ma se ti vengo in mente quando torni a casa / non temer per la mia vita, è meravigliosa…”.
Quando si decide di partire non è mai facile distaccarsi dagli affetti, oggi come tanti anni fa: oltre alla già citata London, la prova è data dalla storia del contadino trentino cantata in Aquitania, che lascia la sua terra alla fine della seconda guerra mondiale per cercare lavoro in Francia e per il quale l’amore per la donna amata e la speranza di rivederla al più presto costituiscono l’unica vera forza per tirare avanti e dare un senso a tutta questa lontananza: “Anna è duro ogni giorno che viene / ma tu sorridi in ogni giorno che c’è / e se alla porta un giorno senti bussare / sappi son io che son tornato da te / Dio del cielo se parli italiano / dille che un giorno io ritornerò / Dio del cielo del mio cuore alpino / se mi vuole mai la lascerò… / ”.
Tra speranze di un avvenire migliore lontano dall’Italia e una realtà europea non ancora definita si muove il protagonista di Berlino, altro giovane viaggiatore in cerca di lavoro come cameriere nella capitale tedesca; città simbolo dell’Europa pre e post Unione europea, già negli anni ‘80 Berlino era la meta predestinata per i primi giovani italiani che partivano attratti dall’illusione di trovare facilmente nuove occupazioni: la canzone si muove in bilico tra la speranza di una nuova vita da costruirsi e un muro che a breve sarebbe crollato, con tutte le implicazioni di un futuro apparentemente a portata di mano che questo evento si portava con sé; tuttavia alla fine il protagonista del brano decide di tornare a casa, mosso dalla nostalgia per il fiume e le sue radici: “Qui dicono che presto c’è il muro che cadrà / ed anche chi è dall’altra parte avrà la sua felicità / ma so che non m’importa, giuro su tutto quel che ho / che vorrei essere coi ragazzi nel mio paese lungo il Po / Così una sera ho preso un treno ed ho lasciato lì il mio bar / così una sera ho preso un treno e ho lasciato lì Berlino…”.
Cielo blu è la faccia positiva del doversi muovere, contraltare all’emigrazione forzata e dettata da problemi di lavoro o di occupazione: è il canto di chi, come un novello figlio dei fiori, ha scelto la libertà totale come unica regola di vita, di chi ha deciso volontariamente di allontanarsi dalla civiltà per trovare una propria dimensione lontano dal caos e dalla frenesia cittadina; un canto quasi hippie, di chi sogna e sa costruirsi un modo per raggiungere quella libertà tanto agognata: “Me ne andai un inverno di tanti anni fa / dalla nebbia scura del paese mio / ero un figlio dei fiori ribelle sai / e mi dicevo qui che faccio io / Io voglio il cielo blu… / Cielo blu, cielo blu / vero, chiaro e forte che da voi non c’è più, cielo blu…”.
Per chi lo conosce e lo segue da anni, è noto l’amore di Priviero per la Storia contemporanea, gli eventi piccoli e grandi che l’hanno determinata, ma soprattutto per gli uomini che ne hanno scritto e interpretato gli istanti più piccoli e quotidiani; quindi non sorprende il fatto che anche in questo disco rientrino episodi come Fiume o Friuli ‘76, canzoni che partono da un accadimento storico ben preciso per poi volare via e raccontare i sentimenti delle persone che quei fatti li hanno vissuti sulla propria pelle, nel bene o nel male.
Fiume è la storia di uno dei tanti esuli italiani che dopo una vita passata lontano torna in quel pezzo di terra istriana che da bambino aveva dovuto lasciare insieme alla madre; e di colpo gli tornano in mente le parole del padre, che non aveva abbandonato la città per difendere il suo lavoro, rivendicando la propria italianità fino alla fine: “Non sono fascista, non son partigiano / mettetevi in testa son solo italiano / son nato e vissuto nella mia città / e se mi cercate sappiate son qua…”. Friuli ‘76 invece prende le mosse dallo spaventoso terremoto che colpì la regione friulana, ma poi si focalizza sul racconto di un ragazzo che, persa la famiglia, ha ricominciato a vivere altrove, trovando la forza e il coraggio per continuare senza comunque dimenticare quel che era successo nella sua terra: “Giuro su Dio che per quarant’anni ho vissuto da uomo buono / ho amato una donna, cresciuto dei figli lontano dal cielo friulano / però quando è sera nei primi di maggio asciugo le lacrime sai / e mi sembra di sentire una voce che dice: hai vissuto anche un poco per noi…”. E di Storia non poteva che parlare anche Basso Veneto, il brano conclusivo del disco, quello con cui, citando il menestrello Dylan, si riporta ancora una volta tutto a casa, concludendo il viaggio e le migrazioni narrate laddove tutto era cominciato qualche anno fa con La casa di mio padre: Basso Veneto è un canto di radici, autobiografia in musica di un artista e di un uomo che è dovuto emigrare con la sua famiglia, ha girato il mondo ma poi è tornato ancora una volta a casa, per fare i conti con una terra d’origine e una storia di legami familiari da cui in un modo o nell’altro non si può scappare mai del tutto: “Ed io gli dissi sorridi, quel giorno saremo insieme / che in questa terra sul Piave c’è scritto su il nostro nome…”.
Sempre di Italia dei nostri giorni parla Rinascimento, un brano rabbioso e allo stesso tempo addolorato per un Paese che ha smarrito i propri valori e la rotta entro cui muoversi e progettare un futuro: nelle parole di Priviero non c’è alcun riferimento alla politica, il suo canto vola più alto delle magagne e delle lotte partitiche; il rinascimento a cui anela è di tipo culturale, morale, civile, una rinascita globale per un Popolo che ha i mezzi e le capacità per non appiattirsi a quel che gli viene propagandato dall’alto: “Al ballo dell’economia non c’è posto per te / che mafie, banche e ladri qui la vogliono com’è / nessun bene comune, per te sia quel che sia / hanno sparato in mezzo agli occhi a quest’Italia mia… / In alto il cuore, amico mio / resisteremo ancora un po’ / in alto il cuore amico mio / rinasceremo io lo so…”. Melodia e arrangiamento smaccatamente dalle parti di Death to my hometown del Boss, ma va bene così… anche lì si parlava di banchieri che ingrassano e poveri sempre più magri, quindi finché i riferimenti sono questi, ben vengano!
A chiudere il cerchio di questa narrazione migratoria, cercando di dare uno spiraglio di ottimismo a questo movimento costante di anime, ci pensa Abbi cura, un brano acustico che cerca di infondere tutto il coraggio di cui può essere capace una canzone: “Abbi cura dei tuoi giorni, se la vita cade giù / niente è meglio di aver visto il male per avere forza in più / ci si batte per quello che vale ed il resto poi non conterà / cerca il tuo tempo migliore ed un sole che ti scalderà… / e quando sarai lì sotto il tuo cielo / io giuro che con te ci sarò anch’io / e se ti chiederai cosa sarà di noi / salva l’ultima carezza mia se vuoi…”.
Insomma, All’Italia segna un altro capitolo fondamentale nella carriera artistica di Massimo Priviero, l’ennesimo gioiello da inanellare in una collana di perle che è la sua discografia più recente: a partire da Dolce Resistenza e passando per i successivi live, la raccolta Sulla strada e Ali di libertà, il rocker veneto non ha più sbagliato un disco, fiero e consapevole della sua vena creativa e narrativa fatta di chitarre acustiche o elettriche a seconda dei casi, di storie reali in cui la gente può rispecchiarsi e di parole precise capaci di tratteggiare sentimenti e stati d’animo vissuti da chiunque in qualunque epoca. All’Italia è un disco dedicato dallo stesso Priviero “a chi ieri è partito ed a chi oggi parte, qualunque sia il suo approdo”, un album che parla di spostamenti e migrazioni, ma allo stesso tempo e soprattutto di forza e coraggio per delle scelte di vita mai facili da prendere. Tra i suoi solchi scorrono le storie dei migranti italiani protagonisti di Villa Regina e Basso Veneto; la ricerca di un nuovo lavoro in Aquitania e Berlino; la voglia di libertà assoluta rincorsa in Cielo Blu; le nuove migrazioni dei giovani d’oggi, cantati in London e Alba nuova, ma anche i sogni e le idee che hanno mosso il medico di Mozambico e Valeria Solesin, morta al Bataclan di Parigi; c’è la Storia contemporanea di Fiume e Friuli ’76, declinata in piccole storie della gente comune; c’è la rabbia e l’incazzatura di Rinascimento, a cui fa da contraltare la speranza finale di Abbi cura, che chiude simbolicamente il cerchio di questa nuova narrazione in musica.
Dopo un disco clamoroso come il precedente Ali di libertà, non era facile mantenere l’asticella della qualità così alta, eppure Priviero – trent’anni di onorata carriera alle spalle e una schiena mantenuta sempre dritta al grido di “nessuna resa mai” – ha dato prova ancora una volta della sua innata capacità di scrivere e cantare la quotidianità, le cadute e le rinascite, le sconfitte e le vittorie che sono poi in fin dei conti quelle di tutti noi: noi che siamo ancora al di qua del mare ma che allo stesso modo vorremmo salpare e andare oltre, emigrare per vedere cosa ci aspetta al di là delle nostre miserie quotidiane e decidere poi se fare ritorno con un bagaglio di esperienze in più: in definitiva All’Italia è davvero il disco che Priviero rincorreva da tempo e che probabilmente è anche il suo miglior lavoro di sempre.
Matteo Manente